Lustro – The keys experiment

L’Hip-Hop è (anche) un genere musicale, solo che molto spesso non lo fanno i musicisti, cioè persone con una nozione precisa di melodia o che suonino un qualche strumento. Il che non è un male, in fondo il tutto è nato come una forma espressiva commisurata al sapersi arrangiare, compensando questa mancanza con una potenza e un’esigenza comunicativa uniche. Poi ovvio, ci sono le eccezioni, ci sono dei grandissimi artisti che si occupano di produzioni Hip-Hop e a volte produttori prettamente Hip-Hop che riescono a rendere straordinari dei lavori di artisti Pop o Rock (penso all’ultimo lavoro di Elvis Costello o a quello di Justin Timberlake), ma si tratta quasi sempre di produttori. Difficile trovare invece persone che siano dei musicisti veri e propri, che suonino cioè uno strumento e facciano il Rap in egual misura come in questo caso.

Lustro parte dunque, ai miei occhi, con almeno un punto bonus per la particolarità della sua proposta. Tuttavia, preferisco dirlo già da qui, il giudizio finale non riesce a essere del tutto positivo, ma va letto in due prospettive differenti: quella di chi è abituato a considerare il Rap alla pari di qualsiasi altro genere e quella di chi sa riconoscere del Rap fatto con tutti i crismi. Andiamo dunque con ordine: Lustro, reduce dall’iniziale collaborazione con Mecna e da vari progetti solisti, ci consegna cinque brani che coniugano un approccio conscious e spesso enigmatico con la dichiarata formazione musicale del rapper. Non è molto facile entrare subito in sintonia con l’aspetto testuale, a causa di una sovrabbondanza di concetti che a un primo ascolto rischiano di essere un po’ trascurati, anche a causa di un timbro molto accostabile a quello del suo ex sodale e che può far pensare a un approccio imitativo.

A un ascolto più approfondito, tale approccio è invece abbastanza personale, ci sono alcune immagini notevoli (vale la pena citare almeno <<io suonavo un do centrale, tu l’assolo di piano, per questo è finito prima il brano>> in “Me ne fotto”) e un uso particolare della teatralità nell’interpretazione di alcune parti dei brani, con momenti vicini al crooning vero e proprio, in più le cose che vengono dette sono tutte particolari, malgrado l’aspetto tematico non sia mai così sorprendente e ruoti prevalentemente attorno alla sempre verde questione dei sentimenti (vogliamo davvero prendercela per una cosa che, ahimé, è comune a buona parte dei dischi Hip-Hop italiani?).

Ciò che convince meno, al di là della sovrabbondanza di concetti che potenzialmente potrebbe essere più difetto che pregio per un ascoltatore, è l’interpretazione incerta di alcune parti dei brani. Un orecchio allenato potrà notare delle piccole accelerazioni per recuperare il tempo che in un disco ufficiale non dovrebbero esserci (a onor del vero, è uno dei miei difetti più evidenti al microfono, perciò sono portato a individuare le imprecisioni anche minime in un testo altrui) e delle sbavature nel mantenere il timbro nel Rap, tutte piccolezze che da una parte danneggiano la delivery e dall’altra rallentano pericolosamente il flow. In più, per semplice gusto personale, ho trovato in alcuni casi che il Rap fosse troppo serrato e non si affidasse a quel grande strumento che sono le pause. Potrà sembrare pignoleria, ma vi basterà un semplice confronto tra “La ballata dell’odio” di Mecna o “Arrivi, stai scomodo e te ne vai” di Dargen, due brani quasi privi di un tappeto ritmico vero e proprio, con le due deboli “Combatti” e “L’ultima foglia” (soprattutto quest’ultima, carente nella seconda strofa e nell’arrangiamento), anch’esse senza un vero beat, per capire a cosa mi riferisca. Questi i punti negativi nel Rap.

La musica, invece, viaggia abbastanza bene, al piano Lustro se la cava ottimamente, anche se a livello di struttura si avverte la sensazione che con uno strumento del genere a disposizione si sarebbero potuti creare momenti differenti all’interno della stessa canzone e usare tonalità e timbri diversi, lasciando per un attimo da parte l’esigenza espressiva, come accade nell’ottima “Me ne fotto” e in “Mi domando”, il brano più convincente a livello di produzione malgrado quei clap nel finale non mi piacciano proprio. Un discorso a sé merita invece il momento migliore di tutto il disco, il Blues di “Il mondo dei quarti” in cui, a parte qualche imperfezione quasi impercettibile nella dizione, il rapper Lustro diventa crooner a tutti gli effetti e dimostra un’inaspettata ironia che forse sarebbe potuta essere sottolineata da un cantato più sporco – ma qui sto proprio facendo le pulci al Nostro.

In conclusione, “The keys experiment” ha un approccio interessante e supera la media di molti dischi Hip-Hop italiani, ma spesso arriva meno di quanto dovrebbe per una questione di eccessiva pulizia nella voce e per una produzione non sempre felice quando al piano si uniscono altri strumenti. Sono curioso di sapere cosa potrebbe accadere se Lustro sceglierà di abbandonare o per lo meno di rielaborare l’utilizzo del Rap, perché i presupposti per fare qualcosa di davvero particolare e che possa superare i limiti del genere ci sono tutti. Un disco da ascoltare, malgrado con orecchie meno smaliziate delle mie e un po’ meno pignoleria, e con il dovuto rispetto obbligatorio verso chi ai campioni Funk e alle influenze Elettroniche ha deciso di opporre un approccio meno allineato.

Tracklist

Lustro – The keys experiment (Unlimited Platform 2014)

  1. Combatti
  2. Me ne fotto
  3. L’ultima foglia
  4. Il mondo dei quarti
  5. Mi domando
  6. Indietro

Beatz

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