Intervista a Litothekid (24/07/2023)
Paolo Lorenzino, classe ’83, ai più noto come Paolito (quando, con Alby Dupliss, fondava i Duplici) o Litothekid. La scuola è quella torinese, il cammino – come rapper e produttore – è ultraventennale; negli ultimi anni, aprendo le porte del suo Substrato Studio, ha realizzato una serie di singoli dal gusto inequivocabilmente underground, curandone produzione e video: Kill The Beat, barre, punchline e metriche per un fine che è chiaro fin dal titolo. Ne abbiamo parlato col diretto interessato, recuperando prima qualche ricordo dal passato…
Bra: chi ascolta Hip-Hop italiano da almeno inizio duemila, ricorda bene il disco d’esordio dei Duplici, “Schiena contro schiena” – noi all’epoca non mancammo di recensirlo! In realtà, tu e Alby D eravate in attività già dalla fine dei novanta: raccontaci dei tuoi primi passi nella scena locale, della nascita dei Duplici e del vostro ingresso in una realtà che ha significato molto per il capoluogo piemontese, La Suite Records.
Litothekid: gli inizi risalgono ai primi anni delle superiori, ovvero alla seconda metà degli anni novanta. Con Alby, confezionavamo i primi mixtape con intro e intermezzi rappati su strumentali americane, esibendoci alle jam locali come Duplice Talento. Sono cresciuto a Vinovo, un piccolo comune della provincia di Torino in cui, quando muovevo i primi passi, potevamo assistere agli eventi organizzati da Dj Walterix e ai live degli allora Funk Famiglia. Proprio grazie a loro iniziammo a frequentare La Suite, cosa che ci permise di accumulare esperienza sui palchi in giro per la penisola e di ottenere un contratto di distribuzione per il disco d’esordio, “Schiena contro schiena”, che fu totalmente autoprodotto da me e Alby con l’aiuto di Dj Kass, che seguì tutte le registrazioni.
B: nel tuo percorso ti sei misurato al microfono, alle macchine e ai piatti, che è una cosa – vista con gli occhi di oggi – abbastanza old school. Avere cognizione di ogni ruolo, dei diversi approcci che riguardano rapper, produttore e dj, ha un risvolto pratico nel tuo modo di lavorare?
L: per me è stato un percorso naturale, spinto dalla passione. Sicuramente mi ha permesso di poter essere creativo in maniera indipendente e di avere una visione più ampia; conoscere i vari linguaggi mi permette inoltre di capire come comunicare al meglio con i miei colleghi, a seconda del ruolo che ricopro in un determinato momento. Dall’altra parte, questa cosa può confondere i supporter o far incazzare i miei colleghi che si sono concentrati sulla loro cosa, possono pensare che io sia un impostore… Ancora oggi, però, mi reputo uno studente che continua a imparare e fa la sua cosa come ha sempre fatto, ovvero con rispetto.
B: prima abbiamo citato Torino, città che ha dato i natali a numerosi veterani dell’Hip-Hop italiano. Tra questi, c’è una figura che consideri il tuo maestro, la tua guida, che ti ha introdotto e fatto orientare in un ambiente del quale poi sei diventato a tua volta protagonista?
L: Torino ha avuto sempre una scena molto competitiva e frammentata, sicuramente ci sono state persone da cui ho imparato molto nei primi anni di attività, ma non parlerei in assoluto di mentori…
B: nel 2016, oramai con un bagaglio di esperienze ragguardevole, rilasci il tuo primo disco solista, “Ventricolare”. Più o meno in contemporanea, lanci il Substrato Studio e incrementi l’utilizzo dell’alias Litothekid; un periodo intenso, che di fatto conduce a un presente di cui parleremo a breve. Cos’è successo in quest’intervallo di tempo, subito seguente al tuo ritorno in Italia dopo diversi anni trascorsi a Londra per lavoro?
L: “Ventricolare” era in realtà più un mixtape che un album (o, come lo avevo definito all’epoca, uno street album), perché si trattava di una raccolta di tracce edite, remix e inediti partorito tra Londra e Torino in maniera totalmente indipendente. Negli anni successivi è uscita qualche singola traccia rappata (di cui l’ultima con la leggenda Bunna degli Africa Unite), ma senza una progettualità vera; nel frattempo, aumentava invece il lavoro in studio come engineer e, fuori da questo, suonavo come dj e selector in serate locali, confezionando anche mixati (che potete ascoltare sul mio mixcloud). Dal 2018, poi, ho iniziato a lavorare regolarmente a Milano come audio project lead per il maggiore vendor di servizi per l’industria del gaming e ho dovuto quindi riorganizzare la mia vita per riuscire a essere il più produttivo possibile nei ritagli di tempo. Ciò mi ha portato a lasciare da parte i giradischi per un po’, per concentrarmi al massimo su produzione e beatmaking, confezionando singoli ed EP strumentali che mi hanno permesso di migliorarmi. Con Kill The Beat ho deciso di aprirmi a collaborare con la scena locale per mettermi in gioco dall’altra parte del vetro. Intanto, sono anche diventato papà. Diciamo che mi tengo impegnato…
B: veniamo appunto a Kill The Beat, format che viene inaugurato nel giugno 2020 e ora è alla seconda stagione. Partiamo proprio dall’idea, dal progetto in sé: singole uscite, un rapper per volta, il formato video, strumentali in sostanza abbastanza classiche, finanche hardcore, e ancora Torino a fare da cornice; una sorta di producer album, per nulla canonico (anche se in seguito verrà stampato il vinile). Qual era l’intento?
L: Kill The Beat nasce con l’intento di collaborare con altri artisti in un progetto mio, in cui – ripeto – potermi mettere in gioco come produttore e beatmaker condividendo la mia musica con altri artisti. Ho voluto rimettere l’arte del microfono al centro in modo nudo e crudo, proponendo un suono che rappresenti la mia personale visione del genere senza seguire alcun trend. Si tratta di un progetto che nasce come format audio/video, agli ospiti viene richiesto di uccidere la strumentale nel modo più efficace possibile in circa due minuti di tempo con una sorta di freestyle. Si tratta sicuramente di un progetto meno impegnativo rispetto a un album in senso stretto, che richiederebbe una lavorazione molto più complessa sia per me che per gli ospiti.
B: la scaletta della prima stagione, distribuita in un arco di circa nove mesi, comprende Lince (oggi Michael Sorriso), Brattini, Mauràs, Rakno, Kiffa, Thai Smoke, Alby D, Angelino Panebianco, Annibale e Maury B. Si nota subito una certa varietà di voci, generazioni e stili, che tu però hai gestito molto bene; come si è svolta la lavorazione, un brano per volta o hai prima raccolto tutto il materiale e poi sei passato alle finalizzazioni e al montaggio dei video?
L: sin dalla prima stagione, ho cercato di coinvolgere mc’s della scena torinese che fossero attualmente produttivi e avessero una propria attitudine nel fare Rap, alternando veterani e nuovi talenti del microfono. Per questa prima tornata, abbiamo lavorato un brano alla volta tra un lockdown e l’altro, mentre per la seconda ci siamo strutturati meglio e siamo riusciti a pianificare il tutto col giusto anticipo, dividendo la stagione in due parti e concentrando gli shooting in un paio di giorni. I prossimi episodi usciranno a partire da inizio settembre, ma abbiamo già tutto ready to drop!
B: colpisce la sostanziale omogeneità del sound, nel senso che – nei limiti del possibile – hai dato una direzione unitaria al tutto, pur collaborando con dieci rapper che hanno storie e peculiarità proprie. Hai tagliato su misura le strumentali in base agli abbinamenti o hai deciso di sfidare ogni partecipante con un beat da affrontare così com’era?
L: in questo caso, ho semplicemente invitato gli artisti uno alla volta in studio per scegliere il beat da killare, cercando di fare una cernita e proponendo loro robe su cui pensavo avrebbero potuto esprimersi al meglio. Ho lavorato poi in post-produzione su arrangiamento e mix per ottenere il miglior risultato possibile e mettere in risalto le doti di ciascun mc.
B: esaurita questa prima – e supponiamo impegnativa – serie di pubblicazioni, viene ristampato “Schiena contro schiena” in vinile, rilasci un paio di EP uscendo anche dalla comfort zone dell’Hip-Hop più tradizionale e sei costantemente impegnato con Substrato, essendo – primo lo accennavi – anche un ingegnere del suono, a conferma di una traiettoria professionale non per forza rettilinea. Sei riuscito a condurre la passione per il beatmaking ben oltre le acque ristagnanti dell’amatorialità, mettendoti in gioco su più fronti: guardando ai risultati ottenuti e alla fatica spesa, quanto sei soddisfatto di questa decisione?
L: se avessi guardato i risultati, non starei facendo quello che sto facendo ora. Diciamo che ho seminato tanto e ho ancora tante soddisfazioni da togliermi e altrettanti risultati da ottenere. Quando questo succederà, non ce ne stupiremo…
B: a inizio maggio prende il via la seconda stagione di Kill The Beat, che al momento ha visto sfilare Dafa, Tito Sherpa, Deal The BeatKrusher, Duke e Joelz. La cadenza si è fatta più ravvicinata, l’architettura è in sostanza la medesima; ti sei concesso del tempo, ma poi sei tornato sul luogo del delitto: era in programma fin da principio?
L: si, i presupposti per una seconda stagione già c’erano, diciamo che per prepararne una intera devo prima potermi chiudere in studio per creare e cucinare le bombe da proporre agli artisti. Nel frattempo, sono usciti alcuni singoli strumentali, oltre al terzo EP della mia personale saga di sperimentazione “Hybrid theories” e “Knowmsayn EP” in collaborazione col turntablist Dops. Come penso avrete notato, rispetto alla prima stagione il suono dei beat è ancora più coeso e dal gusto classic, ma ho cercato di alternare veterani e nuovi talenti e sarà così anche per i prossimi episodi, tenetevi pronti!
B: spicca un’assenza, tra quanti sono stati chiamati a uccidere il beat… Dov’è Paolito?!
L: eh-eh-eh… No comment!
B: hai mai pensato di spostare geograficamente Kill The Beat? Di alterarne la formula – va da sé che girare delle clip nel tuo studio renda tutto più agevole – per coinvolgere artisti da altre regioni italiane?
L: sì, diciamo che il format è nato per e con la scena torinese, ma avrebbe tutte le carte in regola per attingere dalla scena nazionale; o, perché no, essere itinerante, spostando di volta in volta il focus sulla scena Rap di una determinata città. Sarebbe interessante, anche se penso che Torino abbia ancora almeno una season di rime di fuoco da dare al progetto, tirerò le somme a fine stagione…
B: e invece ritieni possibile renderlo almeno una volta uno show dal vivo, portandone sulle assi del palco una selezione (tutti sarebbe difficile…) dei partecipanti?
L: sicuramente! E’ una cosa su cui sto lavorando, mi piacerebbe celebrare la fine della seconda stagione con un bell’evento in città. Purtroppo, nella prima eravamo tra un lockdown e l’altro e non si è potuto fare nulla, ma questa volta ci sono tutti i presupposti.
B: non andrebbe chiesto, ma – non per fare un torto agli altri – ci sono degli episodi di Kill The Beat cui per ragioni personali ti senti più legato?
L: non in particolare. Fino ad oggi è stato davvero un piacere condividere lo studio con tutti gli artisti coinvolti, magari ci sono strumentali mie che riascoltate mi piacciono meno, ma penso sia un fatto normale per la maggior parte dei produttori. Per il resto, ho riscontrato entusiasmo e voglia di mettersi in gioco a ogni episodio, perciò ne approfitto per rinnovare il mio grazie a tutti gli artisti che hanno ucciso i miei beat per il format!
B: abbiamo parlato tanto di produzioni, poco dell’arte del produrre. Raccontaci delle macchine che usi e del tuo metodo di lavoro.
L: il mio metodo per produrre in questo caso si divide in tre fasi, mi è occorso un po’ per arrivare a questa soluzione ma è quella che funziona meglio per me. La prima fase è quella di ricerca dei sample, che può avvenire in vari modi: sia diggando sul web tra YouTube e sample libraries, sia nei crates dei negozi di dischi quando sono in viaggio, ma anche guardando un film e andando poi a cercarmi quella porzione della colonna sonora che mi ha colpito. La seconda fase è quella puramente creativa, dove attingo dalla mia libreria di campioni e taglio, stravolgo, risuono, aggiungo drum, bassi, fx, solitamente ciò avviene a casa sul mio MPC Live 2 o sul treno Torino/Milano col mio portatile, utilizzando la workstation Ableton Live. Molte delle bassline sono scritte in MIDI e poi passate nel mio Moog Sub Phatty una volta in studio. La terza e ultima fase, quella di arrangiamento e finalizzazione, avviene al Substrato Studio, dove importo le varie stem sul mio mixing template di Logic Pro e mi concentro sulla dinamica dell’intera traccia con stacchi, svuoti, transizioni, curando l’aspetto tecnico mixando e masterizzando il tutto per farlo suonare il più dettagliato e potente possibile. Negli anni ho imparato a separare la parte creativa da quella tecnica per salvaguardare la mia sanità mentale… La verità è che al giorno d’oggi si può fare tutto ovunque con un portatile, quello che veramente conta sono le idee e il gusto.
B: l’ultima domanda è quella di routine. Kill The Beat a parte, cos’altro ti terrà impegnato in questa metà conclusiva dell’anno?
L: al momento, sto lavorando per organizzare il drop della seconda parte della season 2 che, come ti dicevo, riprenderà a settembre. Sto inoltre organizzando l’evento finale di Kill The Beat, non abbiamo ancora una data ufficiale ma puntiamo a novembre. Poi mi fermerò e ragionerò sul da farsi, avrebbe senso partire subito con un terzo giro, ma come avrete capito ho bisogno di variare. Magari mi prenderò del tempo per un progetto tutto mio…
B: ringraziandoti per la disponibilità, spazio libero per eventuali risposte a domande che non ti abbiamo fatto!
L: no no, direi che siamo stati abbastanza esaustivi! Invito semplicemente tutti a riguardare gli episodi del Kill The Beat su YouTube e seguire la playlist Spotify che viene aggiornata all’uscita di ogni episodio. Ci rivediamo dopo l’estate e grazie dello spazio, peace!
Bra
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