M.O.P. – To The Death

Voto: 4

Complici le pause estive, tempo idoneo per riallacciare i rapporti con dischi che non si ascoltano da troppo tempo, abbiamo ripreso per le mani “To The Death” senza effettivamente riflettere sul fatto che proprio quest’anno il debutto degli M.O.P. incorra nel suo trentennale. L’esigenza nasceva infatti da un pensiero ricorrente riguardante la generica sottovalutazione di quest’album, in qualità di tassello solo apparentemente estraneo al successo goduto dalla crew negli anni successivi, ma che ne è di fatto parte assolutamente integrante. Non è solo un discorso legato alla riscoperta dell’origine dell’infinito parallelo tra la distruzione degli avversari sul palco e il loro relativo annientamento nel contesto di una vita criminale realmente vissuta, tematica su cui è imperniata la grande maggioranza dei testi scritti da Lil Fame e Billy Danze, è altresì l’inizio del processo traslativo che li aveva portati dagli incroci più pericolosi di casa (e dalla prigione, nel caso di Danzini) a crearsi un ramo d’attività meno pericoloso e più redditizio, imprimendo con veemenza un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile, coniando termini colloquiali che hanno contraddistinto il gruppo sin dal suo concepimento, infine ritagliando un’identità forte e chiara, un’essenza da vero e proprio plotone di quartiere contraddistinto da un fortissimo senso di lealtà di strada.

<<It’s the Mash Out Posse, rugged neva smoove, M fuckin O fuckin P on the move>>: una linea classica, evocante, suggestiva, adeguatamente introduttiva per un’immagine reale, vera, tangibile, che non aveva preso scorciatoie – ne avrebbero prese più avanti, ma è un altro pezzo della storia – o creato fandonie al solo fine di spacciarsi per ciò che non erano mai stati, una genuinità sorretta da un’inusitata quantità di testosterone atta a prendere a pugni chiunque non giocasse secondo le loro regole, attraverso l’espressione di un’attitudine ferrea nel rispetto delle proprie leggi non scritte. No, non sono mai stati liricisti particolarmente sopraffini o articolati, ma la loro chimica interattiva è sempre risultata solida come un masso, incitante all’emanazione di adrenalina pura – quest’ultimo aspetto di fondamentale importanza per godere appieno dei loro lavori; una squadra perfetta nella sua integrazione, con l’uno a completare le linee dell’altro, ad-lib vincenti allocati al momento più opportuno e un particolare equilibrio tra i rispettivi elementi caratterizzanti, su tutti il tono alto di Fame e la minacciosa raucedine di Danze, peraltro spesso corredata da una figura ombrosa e poco raccomandabile, col berretto così schiacciato sulla fronte tanto da non far quasi vedere gli occhi.

Nonostante la cronica semiassenza di riconoscimento e la minor portata delle hit ivi contenute (che, tanto per chiarire, comunque tali rimangono), “To The Death” va ancora giù tutto d’un fiato, grazie a quel suo sapore particolare, al suo essere tutto d’un pezzo, privo di compromessi e pronto a prendere a calci in culo – o a puntare addosso un ferro – senza pensarci troppo. Alla forza di questa personalità, che in un modo o nell’altro ha costantemente sopperito all’assenza di una particolare inventiva tematica o a una significativa diversificazione nel modo di porsi (in fondo, ci sono sempre piaciuti così, perché mai dovevano cambiare?), andava inoltre ad aggiungersi un fattore altrettanto preponderante, ovvero una produzione eccellente nel dare ai suoni tutto quel senso di genuinità emanato dal Rap dei due, un’impresa mai sufficientemente riconosciuta a un D/R Period geniale nel correlare quella rude crudezza sui quattro quarti, dando vita a un allestimento strumentale lineare, compatto, coerente, capace di proporsi consequenzialmente ai dettami dell’epoca senza scandire il pericolo del puro manierismo, individuando una miscela di campioni essenzialmente tratti dalla patrimonio black di vent’anni prima, sminuzzando piccole porzioni principalmente tratte dal Jazz collocate in punti strategici dei pezzi, generando un effetto di complessiva inquietudine atmosferica, con intelligenti linee di basso e batterie più dure di una mazzata da baseball che giunge dritta in testa.

Benvenuti dunque a Crooklyn, la vera casa degli americani coraggiosi, di quelli che non sentono scuse e non ne vogliono sapere di scocciature, pena la presa di coscienza di quale fine si potrebbe fare capitando tra le loro mani: <<go get your muthafuckin’ hammer/and act like you want drama/I send a message to your mama/’hello, do you know your one son left?/I had license to kill and he had been marked for death/he’s up the Hill in the back of the building with two in the dome/I left him stiffer than a tombstone’>>. A Brownsville non si scherza e un passo falso può costare la vita, gli M.O.P. hanno il pregio indubbio di farti respirare addosso il concetto e persino un singolo selezionato per promuoversi attraverso i mezzi di comunicazione (quelli di allora) come il mitico “How About Some Hardcore” calava con ferocia la mannaia nelle sue considerazioni molto dirette, dando il benvenuto all’inferno, realizzando al contempo un brano che esibiva alla perfezione il tipo di contesto di provenienza, un pugno nello stomaco al Rap saponato, nonché ai numerosi che si atteggiavano da gangster pur di vendere copie (<<fake gangstas got mad war stories to tell/about how many muthafuckas they blew up in jail/they said their camp was mad deep and they had crazy pull/that little bitch, but now he snitched like Sammy The Bull>>).

“Rugged Neva Smoove” getta fuori con naturalezza la parola classico dalle sue spore solo leggendone il titolo, tanta è la quantità di storia del gruppo che emerge dalle sue righe, dalla sua musica, dal suo inossidabile temperamento. Vero, l’avrebbe poi remixata Dj Premier aggiungendo il suo tocco magico, ma la versione originale resta pur sempre un significativo conglomerato di puro metallo, grazie al ritornello vincente e quel profondo spirito di affiatamento tra i componenti del team, nonché alle impietose bastonate di un beat assolutamente memorabile. Utilizziamo volentieri la stessa definizione per “Heistmasters”, non altrettanto famosa ma dannatamente irrinunciabile con quel lieve feeling giamaicano, la sezione ritmica implacabile, l’ottima linea di basso, la quale porta con sé la progenie della colossale “Ante Up”, spiegando le modalità di rapina e le conseguenti dinamiche, inquadrando la propria esperienza nella giungla di cemento attraverso un micidiale uno/due negli scambi al microfono.

“Ring Ding” suona squisitamente marcia, con quei minuscoli estratti di tromba accartocciati e lasciati essiccare all’esterno per una miglior resa da bassifondi; “Blue Steel” è altro materiale aureo, che richiama in causa il contributo di un Jazz ridotto in parti minimali per dare effetto a determinate parti del beat, ennesimo fiore all’occhiello per un D/R Period per nulla intimidito dalla responsabilità della totale – eccetto “Guns N Roses”, assemblata da Silver D con un retrogusto da riempitivo – produzione, capace pure di uscire dal seminato offrendo le opportune divagazioni di una titletrack che prosegue nell’intento di non andare per il sottile (<<we leave you dead stinkin butt-naked in a second/we’re niggas that stopped sellin drugs to sell records>>), attraverso una costruzione che ricorda il G-Funk di quegli anni. Da ricordare sono altresì quel capolavoro di ambientazione sinistra denominato “F.A.G. (Fake Ass Gangsta)”, che prende nuovamente per il colletto tutti coloro che raccontano storie solo per dare aria alla bocca invitando a provare un trattamento di bellezza in stile Brownsville, nonché “Top Of The Line” e “Drama Lord”, di seconda fascia ma sufficientemente solide nel contribuire a rendere granitico il pacchetto.

Spesso si sentono grosse differenze tra esordi e dischi seguenti, dove l’esperienza cresce e migliora la tecnica, ma col loro esordio Lil Fame e Billy Danze avevano già ampiamente dimostrato il loro valore. Pensando agli M.O.P., si tende frequentemente (e comprensibilmente) a ricordare “Ante Up”, “Cold As Ice”, “4 Alarm Blaze”, piuttosto che il parziale successivo subentro di Premier – che si era accorto prima degli altri dell’unicità di questo potente magma ribollente rabbia repressa – alla produzione, ma il fondamento della tradizione del gruppo è tutto racchiuso in questi quarantatré minuti di fuoco. Tre decadi dopo, a maggior ragione dato che il piacere del suo ascolto è piacevolmente invariato, pareva corretto attribuire a “To The Death” la sua corretta importanza. Giustizia è fatta.

Tracklist

M.O.P. – To The Death (Select Street Records 1994)

  1. Crimetime 1-718
  2. Rugged Neva Smoove
  3. Ring Ding
  4. Heistmasters
  5. Blue Steel
  6. Who Is M.O.P.?
  7. To The Death
  8. Big Mal
  9. Top Of The Line
  10. This Is Your Brain
  11. Drama Lord
  12. F.A.G. (Fake Ass Gangsta)
  13. How About Some Hardcore
  14. Positive Influences
  15. Guns N Roses

Beatz

All tracks produced by D/R Period with the associate production by Laze “E” Laze except track #15 by Silver D

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