Homeboy Sandman – Rich II
Sfuggente a ogni tentativo di definizione, si può dire che Homeboy Sandman continui a fare – con la massima schiettezza – ciò che vuole, quando vuole, come vuole. E’ un sunto forse troppo semplice e riduttivo, tuttavia eloquente nel rappresentare la mentalità di un personaggio distinguibile in un mare di cloni, la cui personalità si è evoluta prestando attenzione al non adeguamento al pensiero e gusto comune, ai cliché imposti dalla società per primeggiare nella vita, costruendo attraverso un’attitudine riservata un ponte che gli ha permesso di raggiungere un eremo tutto suo, possibilmente indisturbato, a debita lontananza da ciò che non gli piace o che non condivide.
“Rich II“, gradito prosieguo del primo capitolo, spinge con rinnovato vigore sul pedale della sperimentazione, aspetto oramai decisivo nel delineare i tratti eccentrici che perseguono una personale necessità di libertà espressiva, un aspetto che ha relegato Angel De Villar in un incavo del tutto particolare dell’Hip-Hop, nel quale magari non ci sarà tutta questa compagnia ma dove dimostra di sentirsi totalmente a suo agio. Cresce la determinazione nell’esprimere i propri valori, ma non varia il modo di proporsi, fermamente staccato da esibizioni di virilità, tranquillo nel suo esprimersi, per quanto brutale risulti a volte l’impenetrabilità della persona. Sandman pare infatti aver trovato modo di non dover più giungere a compromessi con nessuno, non solo nella libertà artistica e stilistica che puntualmente manifesta, ma pure a livello umano, dimostrandosi assai selettivo, impegnato nella ricerca dell’amore per se stesso, determinato nel seguire un progresso identitario per il quale la musica si è dimostrata essere la terapia più opportuna.
Come sempre ricco di trovate che a nessun altro verrebbe in mente di inserire, il lavoro gode dell’impreziosimento fornito dall’estrosa produzione di Mono En Stereo, essenziale per il particolare allineamento che il rapper richiede al fine di poter operare secondo dogmi non predefiniti, assecondando la voglia di osare e dando vita a creazioni di pura apertura mentale. Ciò è riflesso dall’ampia selezione di sonorità e dal modo di campionarle, depredando i negozietti dell’usato di vinili che incorporano elementi di psichedelia e improvvisazione, attraversando Rock progressivo, Jazz, Blues e influenze latine. L’arte dimostrata dal produttore risiede nel suo saper cogliere la sezione corretta da estrarre dal brano campionato, assecondando quella sensazione di bizzarria che distingue inequivocabilmente un mc sobrio, moderato, perfettamente conscio del suo non prendersi eccessivamente sul serio, fornendo nel mezzo messaggi rilevanti.
Parte del fascino sta infatti nel non comprendere immediatamente dove sia il confine tra l’enigmatico e l’ilare, un equilibrio che l’artista del Queens mantiene con una maestria incisiva, equiparandosi idealmente a quell’amico che fa sbellicare dalle risate pur rimanendo permanentemente serio. In fondo chi, se non lui, penserebbe di cominciare un disco con un’allegra marcetta da pifferaio magico tracciando strette linee di demarcazione tra le persone che gli vanno e quelle di cui nemmeno vuol sentir parlare, celando la compostezza del breve contenuto di “Don’t Ever Think About It” sotto l’irresistibile demenzialità della strumentale e della delivery? E chi disporrebbe di un buonissimo beat per scrivere un testo di soli thank you – per l’appunto, “Thank You” – per poi proporne un remix contenente le liriche che ci sarebbero dovute essere prima?
L’immersione in egual misura in serio e faceto rappresenta un sostegno sicuro e duraturo, brani come “Summertime” sono letteralmente fuori di testa, sia per una pesca che, con tutta probabilità, attinge dalla New Wave del Sol Levante (quel giro di chitarra resta fisso in testa), sia per il completo disinteresse nel fornire una metrica precisa, con lunghissime pause, tratti schematici aperti all’interpretazione più spontanea, esaltando il concept umoristico del testo senza tuttavia risparmiare qualche freccia avvelenata. “Mayor Koch” induce frenesia, il sample vocale è pitchato a mo’ di cartone animato, accentuando l’idea che l’artista padroneggi l’espressione di un’autoironia tutta sua. “Leave Me Alone” ritaglia una sezione di Jazz d’autore realizzando un basamento tra i più stravaganti (nonché difficoltosi su cui rappare, ma non è un problema per il Nostro…), ordinarietà e consuetudine di certo non residono qui, rafforzando un desiderio di estromissione dal mondo esterno per dedicare tempo a sé, senza ritmi scanditi dalla normalità o vicini che possano rompere la pace di quei momenti.
Il bisogno di diversificazione emerge quale filo conduttore tematico, come rappresentato da episodi forti come “Need A Woman”, altra estrazione nipponica tagliata e cucita di fino, la quale evidenzia uno stato d’animo afflitto a seguito di esperienze deludenti ma rinfrescato dalla prospettiva di una migliore ricerca della partnership ideale (<<I need a woman who inspires me/not tires me/who’ll admonish me but admires me/to calm my anxiety/who’s brave enough to rebel against society>>). “People” e le sue epifore cominciano come una jam session, chitarra e batteria trascinano, le liriche mostrano evoluzione nella capacità decisionale per il sentiero esistenziale da prendere, insistono sul divino e sottolineano considerazioni sociali, una manifestazione onesta e inoffensiva di chiarezza verso le proprie idee ripresa pure da “Every Day”, affettata in più parti e ricollegata con ottimo gusto compositivo, mentre il testo sottolinea un’attitudine buona, gentile, altruista, ricca di variopinte sfaccettature intrarelazionali a volte contrastanti, tanto divertente nel metodo espressivo e nel cambiare improvvisamente argomento quanto singolare nel piazzamento delle rime (<<I keep the place tidy/I’ve been scrubbing dishes with my left hand even though I’m righty/trying to be ambidextrous/I do those type of extras every day I exist>>).
Si chiude con un occhio motivato verso il futuro, individuando i prossimi passi per giungere ai traguardi personali: “The Place I Want To Be”, contraddistinta da corde e organo, tratta ancora degli obiettivi relazionali con senso di ricerca nel progresso interiore, identificando uno stato d’animo che ancora non c’è; “Dream Come True” è invece un canto quasi malinconico, intimo, l’occhio si posa su una persona sola con se stessa, accompagnata da delicate note di chitarra acustica, mentre i pensieri si liberano senza condizionamenti di sorta, confermando l’abilità della produzione nel trarre le parti più significative del campione per esprimere l’umore del brano. Lo spazio è così ampio da non sapere mai cosa aspettarsi dal pezzo successivo, come attestato da una “Win Win” sorprendente per come segue invece una composizione più tradizionale nella misura, togliendo di mezzo gli alti per dare un effetto onirico a un beat superbo, curioso per come si riveli non conforme al proprio anticonformismo e per come lasci quel tanto di accessibilità in più rispetto ad alcuni estremismi realizzativi del recente passato.
Ventotto minuti, sì, ma di rarissima intensità, i quali conseguono nel pensiero di trovarsi di fronte a uno dei lavori più completi di un artista già molto ricco di talento.
Tracklist
Homeboy Sandman – Rich II (Dirty Looks 2024)
- Don’t Even Think About It
- People
- Every Day
- Need A Woman
- Mayor Koch
- Leave Me Alone
- Win Win
- Summertime
- Thank You
- The Place I Want To Be
- Dream Come True
- Thank You (Remix)
Beatz
All tracks produced by Mono En Stereo
Mistadave
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