Apathy – Handshakes With Snakes
Le vicende Hip-Hop possono essere molto frustranti in determinate circostanze. E’ un fatto conosciuto in egual misura dall’artista e da chi lo segue, d’altro canto l’altalena di emozioni che il continuo contrasto tra underground e mainstream continua a creare è spesso ingestibile, a volte sembra che l’orgoglio di rappresentare una passione viscerale non basti, che la gente non capisca e soprattutto non gliene importi nulla, il pubblico di oggi è così disattento e di facile fruizione che spesso non dispone nemmeno di un’identità musicale formata per poter esprimere un’opinione sensata. Così, chi fa le cose col cuore, si trova a scegliere se lasciarsi avvolgere dalle cattive sensazioni portate da un’oramai irreversibile stupidità che gravita attorno a un certo tipo di Hip-Hop giungendo a definire strafigo ogni pezzente che si avvicinI al microfono, oppure se reagire, utilizzare le forze risparmiate dallo sconforto per continuare a combattere nel proprio semi-anonimato, sicuro di un contraccambio affettivo molto forte da parte dei fan. Apathy prosegue imperterrito la sua personale battaglia contro l’incapacità e l’ignoranza, dimostrando che nel tempo l’Hip-Hop sotterraneo ha saputo mantenere radici forti, rami rigogliosi e che può restare orgoglioso dei suoi figli. La sua è una presenza costante e irrinunciabile nel contesto della scena attuale, il suo è un lavoro instancabile che continua a generare una longevità discografica che, nella sua storia, non si è mai abbassata sotto una determinata linea qualitativa, un pregio particolare se considerato l’alto numero di registrazioni che tra esecuzioni personali e partecipazioni in decine di progetti paralleli l’uomo del Connecticut continua a sfornare, tenendo il suo nome in forte evidenza anno dopo anno.
<<Yo everybody wanna rap, but nobody wanna work/want their face on a shirt, wanna make the bitches twerk/want to take over the earth but they’re afraid of dirt/and they scared of criticism and gettin’ their feelings hurt/everybody want results and they want it real quick/want to spit and have a label tell ‘em that it’s a hit/they want a whip, want a chick with some big fake tits>>. Partiamo da questo breve ma significativo estratto a parlare di “Handshakes With Snakes”, un disco che basa tutta la sua struttura su un sempre aperto dissidio tra orgoglio e perdita dei valori, argomentando di gavette sfasciate da un pubblico rincitrullito dalla costante ricerca dell’autotune del giorno; è un album provocatorio, sincero ed esplicito, pronto a dimostrare la sua sistematica superiorità nei confronti di chi vende migliaia di volte in più in un confronto che promette solo fuoco e fiamme, per poi servire la testa della vittima sacrificale verso un’ideale altare dedicato ai dèi che fecero nascere questa meravigliosa cultura nel Bronx.
Quella espressa da Apathy per la parte consistente del disco è una stanchezza che ha appesantito chiunque sia cresciuto a pane e golden era, con un Hip-Hop fatto di sostanza, significato e soprattutto rispetto per il talento, qui espresso da un bianco originario di Willimantic che ha accumulato le sue tacche all’interno di un contesto culturale nero oggi depredato della sua originalità. Rievocare una determinata epoca significa citare metaforicamente e non troppo casualmente Transfomers, Gremlins e missili sovietici nella stessa strofa, così come ri-utilizzare il beat originale di “By The Time I Get To Arizona” per creare un pezzo nuovo, inserire un breve ma emozionante cenno di “The Bridge Is Over” per virare momentaneamente un beat significa trasmettere al proprio pubblico la causa della propria folgorazione musicale – ed è proprio qui che Apathy riesce a centrare una connessione molto particolare con il fan anagraficamente più vicino a lui, alimentando una nostalgica condivisione tra due parti apparentemente lontane tra loro.
A livello contenutistico il disco è idealmente scindibile in tre parti, rappresentate da una prima fascia di pezzi volta alla critica del sistema musicale attuale, da una manciata di brani che esaltano le ampie e già note capacità descrittive del soggetto, più una fitta serie di collaborazioni. In ciascuno dei casi, la prestazione è globalmente impeccabile e come sempre spiccano una dizione pulitissima e precisa rispetto a qualsiasi numero di bpm venga proposto, intere linee multisillabiche perfettamente agganciate le une alle altre e dei testi che, seppur toccando spesso lo stesso concetto, riescono ad esporlo in maniera creativa e differente stimolando l’arguzia per abbinare i riferimenti citati, trovando una via di certo efficace nel fornire continuità all’ascolto.
Fra le tracce particolarmente riuscite vanno annoverate quelle dove a emergere è la capacità di mettere in piedi barre vivide, colme di immagini chiare ed evocative, con particolare riferimento a “Pieces Of Eight” e la stessa titletrack, nelle quali spicca la già conosciuta e sempre notevole abilità nel dettagliare un ambiente o una determinata situazione, riportando in vita piccoli cortometraggi pirateschi, irriverenti, sboccati e cinici, così come territori fortemente assolati, desertici, nei quali il sudore immaginario scorre alla pari dell’avanzare di barre atteggiate ma allo stesso tempo sensibili, meglio se auto-dipingendosi come un’anima dannata preparata allo scontro finale con quel diavolo che rappresenta simbolicamente il male che pervade l’Hip-Hop dei giorni nostri. Le numerose collaborazioni prediligono la presenza di due ospiti nella stessa traccia, con buoni risultati. Apathy si unisce a due autentici assi del lyricism puro come O.C. e Ras Kass per costruire una “Don’t Touch That Dial” sorretta da un sample privo di batteria e improntato su un coro, chiama a rapporto il compare Celph Titled e il suo letale cinismo appaiandoli a una strofa di grande spessore – purtroppo una delle ultime – a firma dell’indimenticato Pumpkinhead per “Amon RAW”, che presenta tre veri faraoni dell’Hip-Hop; altrove, B-Real e Sick Jacken sono più che consoni alle ambientazioni latine che attorniano la malinconica titletrack.
Meno efficace pare essere “Moses”, uno dei beat più incolori del lotto e inconsueta collaborazione per l’artista principale, data la sua apparente poca affinità rispetto a colleghi come Twista e Bun B, i quali si distinguono più per personalità e registro che non per contenuti. Ottimo invece, come sempre, il contributo di Blacastan su “Blow Your Head Off”, la cui base gli viene coerentemente cucita addosso, mentre Spit Gemz e Nutso appaiono come l’anello debole della catena di “No Such Thing”, che indovina clamorosamente il sample di tromba trattandolo proprio come si usava fare un quarto di secolo fa – in maniera funkeeeeee – dandogli quel sapore particolare che non riesce a far fermare la testa dall’andare su e giù.
La produzione è completamente gestita da Apathy in persona, usufruendo di ispirazioni che seguono il boom bap più classico ma deviando talvolta il percorso su suoni più armonici e attuali, strizzando saltuariamente l’occhio alla hit Pop anni ottanta come da consuetudini del Nostro, tendenza, quest’ultima, idoneamente esemplificata dalla ricostruzione del refrain di “You Can’t Hurry Love” – noto pezzo delle The Supremes in seguito reinterpretato da Phil Collins – per formare il ritornello di “Pay Ya Dues”. Va tuttavia sottolineato che il comparto produttivo non è del tutto convincente, qualche perplessità è inevitabile quando si opta per un upbeat che lascia indifferenti (“Moses”, “Attention Deficit Disorder”) e si denota una certa assenza di vigore per un gruppo ristretto di episodi – ad esempio “Rap Is Not Pop” e “Charlie Brown” – assai poco vivaci nonostante le solide soluzioni adottate per le batterie. Molto più azzeccati sono tutti quei passaggi in cui il suono si abbina particolarmente bene al tema, si vedano l’atmosfera avventuriera della precedentemente menzionata “Pieces Of Eight” o la forte componente emotiva di “Handshakes With Snakes”, valorizzata dalle sonorità scelte e dal ritornello della brava Mariagrazia.
Il fatto che Apathy sia musicalmente riuscito a far di meglio in passato – e ci riferiamo in ogni caso a una prestazione complessiva che rimane più che buona – resta una questione puramente soggettiva, mentre non ci sono discussioni alcune quando si riflette sul suo ennesimo disco di ottima fattura lirica e concettuale, un aspetto che ha sempre trovato straordinariamente puntuale l’artista conosciuto all’anagrafe come Chad Bromley, un riferimento indispensabile nella scena odierna di una Cultura che lui stesso – dopo essere cresciuto con le stesse cassettine che pure noi abbiamo venerato – ha coltivato con amore e devozione, plasmando il suo talento e trasformandosi nella figura di grande rilevanza che a tutti gli effetti rappresenta. Non venderà come Lil’ questo o Gangsta quell’altro, ma il suo sogno di dettare massimo rispetto l’ha inequivocabilmente realizzato.
Tracklist
Apathy – Handshakes With Snakes (Dirty Version Records 2016)
- Intro: An Army With Me
- Pay Your Dues
- Amon RAW [Feat. Celph Titled and Pumpkinhead]
- Rap Is Not Pop
- Don’t Touch That Dial [Feat. Ras Kass and O.C.]
- Charlie Brown [Feat. Oh No and Kappa Gamma]
- Blow Ya Head Off [Feat. Marvalyss and Blacastan]
- Attention Deficit Disorder
- No Such Thing [Feat. Spit Gemz and Nutso]
- Pieces Of Eight (Give Up The Ship)
- Run For Your Life [Feat. O.C.]
- Moses [Feat. Twista and Bun B]
- Handshakes With Snakes [Feat. Sick Jacken, B-Real and Mariagrazia]
Beatz
All tracks produced by Apathy
Mistadave
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