Apathy – The Widow’s Son

Voto: 4 +

Un attento paragone tra parte degli elementi caratterizzanti l’Hip-Hop e la Massoneria evidenziano degli indubbi punti di contatto: sono ambienti che prevedono una sorta d’iniziazione, una scalata delle gerarchie rapportata allo sviluppo delle proprie capacità; si interessano di tematiche atte alla ricerca della verità, promuovendo (magari in forme diverse…) la libertà espressiva; esiste un forte legame tra gli appartenenti. Apathy, all’una e all’altra materia, ha affidato le convinzioni di una vita intera trovando equilibrio proprio nel loro parallelismo, approcciandosi a esse con una mentalità lavorativa ferrea, conscio dello spessore dei propri mezzi e attento nel trarre le opportune lezioni dai lasciti di chi ha trasportato la torcia prima di lui.

Laddove la discografia precedente del Nostro si limitava a citare determinati idealismi in maniera del tutto parziale (viene subito alla mente “The Grand Leveler”), “The Widow’s Son” ne è invece un tuffo a capofitto, il concept portante è abilmente tessuto attraverso la continua intersezione etica reperibile tra le due devozioni dell’artista creando un contesto nel quale molti aspetti sono interpretabili a seconda della sfaccettatura che si vuol analizzare. L’indicazione principale giunge da un titolo che suggerisce l’esplicita direzione dei contenuti (piccolo spoiler: la chiave interpretativa è data dalla figura di Hiram Abiff) nello stesso momento in cui va a coniare una pertinente autodefinizione per l’artista medesimo, correlata alla mai del tutto superata perdita del padre e unendo così due esigenze espressive in un sol colpo.

Saper costruire un disco su una nozione precisa, estenderne lo svolgimento in maniera coerente e garantirne concretezza nella produzione tecnica comporta un’attestazione di merito che in ambito Hip-Hop può elevare un artista rispetto ad altri e Apathy – grazie a una carriera vissuta all’insegna della consistenza estrema – ha oramai accumulato riconoscimenti di grandezze assortite. L’album esaminato in queste righe sottolinea una volta di più proprio il sistematico ricavo qualitativo che deriva da una discografia frenetica rispetto agli intervalli che separano le singole pubblicazioni, incentrando nuovamente il tutto sui differenti tratti della personalità di una figura spesso cinica e brutale, ma che non nasconde la vulnerabilità dei propri sentimenti e tiene viva la fiamma della propria adolescenza, utilizzando quest’ultima come base per la crescita personale senza mai dimenticarsi della sacralità di quell’essenza e arrivando a farne persino uso per allontanare alcuni tra i più grandi dolori che la vita chiede di sopportare.

Ciò significa ritrovarsi a chiudere un disco con una delle tracce più impegnative di sempre da registrare, un sommesso omaggio a quel padre scomparso sei anni fa che utilizza simbolicamente Obi Wan Kenobi – uno dei riferimenti dell’adolescenza di cui sopra – per delineare i tratti del mentore presente solo attraverso lo spirito, un ragionamento all’interno del quale va aggiunta la realizzazione del più grande sogno di un giovane aspirante mc, quello di riuscire a farsi produrre dai propri idoli. Apathy non è nuovo a questo tipo di collaborazioni, tuttavia l’adrenalinica motivazione con cui devasta le basi offerte da Premier (“The Order”) e Pete Rock (“I Keep On”) suggerisce l’enorme rispetto provato per tali leggende viventi, a loro volta omaggiate con intrecci deliziosamente intricati, schemi metrici molto creativi, chilometriche multiliner e testi scritti col massimo della cura nel posizionamento delle rime e nel conteggio delle relative sillabe, peculiarità che permettono di tenere testa anche alla pazzesca dizione di un altro ospite di altissimo riguardo come Pharoahe Monch.

L’impostazione della copertina sulla raffigurazione della locuzione latina memento mori rappresenta invece un momento di maturità e indipendenza, traslando entrambe nella libertà di elaborare complesse rime che rappresentano la natura delle proprie idee, il prendersi la libertà di smontare le religioni attraverso le loro contraddizioni, l’aprire gli occhi davanti alle falsità propinate ovunque come suggerisce una consistente titletrack eseguita in compagnia del fido Ryu. Nuove teorie cospirative e rivelazioni matematiche vengono scandite dall’orologio che interviene a dettare parte dell’andatura di “Hypnosis”, pezzo di grande tensione dove il tempo sembra finire da un momento all’altro; “Legend Of The 3rd Degree” è invece il centro idealistico del disco, l’oscuro beat e il testo pieno di misticismo offrono un’atmosfera generale niente meno che impressionante.

Gli approfondimenti di tali tematiche non distraggono Apathy dallo scoccare letali frecce da battaglia offrendo la consueta perizia tecnica – delivery e controllo del fiato rasentano costantemente la perfezione in tutta la scaletta – dando luogo a un lavoro ricco di padronanza linguistica nel quale interi versi sono collegati da strali di assonanze, talvolta gestite piegando i vari suoni con l’astuzia necessaria. Da questo punto di vista le introduttive “The Spellbook” e “Chaos” risultano essere delle prestazioni individuali devastanti, la fanfara medievale di “Stomp Rappers” chiama invece a raccolta l’impudico wordplay di Celph Titled e la brutalità degli M.O.P. – questi ultimi magari non vigorosi come un tempo, certo, ma assolutamente pertinenti all’idea del pezzo. “Rise And Shine” dimostra infine che l’offensiva autocelebrativa può ancora risultare creativa se ben concepita, tesi avvalorata dall’ennesima ammirabile prestazione di un Locksmith oramai incontenibile, che al cospetto del protagonista principale lascia senza dubbio un ottimo ricordo (<<that cast a stone? You plastic clones adapt poems/like diggin’ for fossil fuels extracted out of jurassic bones/you excavated a style that I encoded/sittin’ rhymes back at me like I wasn’t the one who wrote it, motherfucker>>).

La produzione, oltre che veder contribuire le figure mitologiche già menzionate, vede Apathy contravvenire alle sue più recenti abitudini occupandosi in prima persona solo di una manciata di pezzi, decisione che però non influisce assolutamente sulla coesione sonora del disco. I quattro pezzi da lui firmati offrono un boom bap che pesta come sempre durissimo, con sample indovinati nell’accompagnare i temi dei vari pezzi: vengono utilizzati elementi tanto caotici quanto richiamanti la radice epico/cavalleresca tipica di queste parti, strizzando saltuariamente l’occhio a qualche estratto Soul appositamente non ripulito dalla polvere, confermando la solita ampiezza visiva nella selezione dei suoni. Molti argomenti richiamano l’oscurità e il mistero, quindi il lavoro di centratura sonora – in particolare da parte del visionario Nottz e di uno Stu Bangas finalmente all’infuori dai soliti cliché – è determinante per il buon esito del tutto, chi ama le atmosfere più classiche potrà poi passare ore a sbattere la testa al ritmo di quanto confezionato da Buckwild (“A View Of Hell”, esaltata dai graffi di Dj Eloheem) e chi attende con ansia la realizzazione del progetto Sleeper Cell potrà in ultimo gustarsi l’innegabile affinità tra Apathy e Diabolic, la cui dualità promette scintille (“Fist Of The North Star”).

Chiunque cerchi certezze nell’immenso e confusionario mare che è diventato l’Hip-Hop, sa già cosa fare.

Tracklist

Apathy – The Widow’s Son (Dirty Version 2018)

  1. The Spellbook
  2. Chaos
  3. Never Fall Off [Feat. A.G.]
  4. The Widow’s Son [Feat. Ryu]
  5. The Order
  6. Alien Weaponry
  7. Hypnosis [Feat. Brevi]
  8. I Keep On [Feat. Pharoahe Monch]
  9. A View Of Hell
  10. Fist Of The North Star [Feat. Diabolic]
  11. Stomp Rappers [Feat. Celph Titled and M.O.P.]
  12. Legend Of The 3rd Degree [Feat. Tone Spliff]
  13. Rise And Shine [Feat. Locksmith]
  14. Obi Wan

Beatz

  • Apathy: 1, 3, 11, 13
  • Stu Bangas: 2, 10, 12
  • Chumzilla: 4
  • Dj Premier: 5
  • Nottz: 6
  • Messiah Musik: 7
  • Pete Rock: 8
  • Buckwild: 9
  • Smoke The World: 14

Scratch

  • Dj Mekalek: 3, 13
  • Dj Eloheem: 9, 10
  • Chumzilla: 11
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