Armand Hammer and The Alchemist – Haram
Dei sei progetti (EP e mixtape compresi) pubblicati in un intervallo di soli sette anni dal duo Armand Hammer, tutti ovviamente marchiati Backwoodz Studioz, nessuno sfuggiva alla formula che prevedeva ELUCID e billy woods al fianco di un numero variabile, ma mai esiguo, di beatmaker; fa eccezione “Haram”, che non solo riduce all’unità la casellina dei contributi alle macchine (più una co-partecipazione di Earl Sweatshirt), ma si aggiudica il talento di un top player quale Alchemist, reduce da un venti/venti che, tra le altre cose, l’ha visto impegnato in titoli come “LULU”, “The Price Of Tea In China” e “Alfredo” (con tanto di nomination ai Grammy). Per chi segue fin da principio le traiettorie di entrambi i percorsi, si tratta senz’altro di un intreccio dall’esito non preventivabile a scatola chiusa; se non nella sua sottintesa complessità.
Il termine arabo ḥarām, traducibile in proibito, indica appunto ciò che la religione islamica ritiene sia vietato; ecco spiegata l’elegante cover degna di una norcineria, riferimento a un concept lirico che in quanto a estremo e grottesco non intende affatto risparmiarsi. E in ciò possiamo subito rilevare un’annotazione tutt’altro che marginale: diversamente da quanto sarebbe lecito supporre, il ricorso a sonorità che sulla carta si accordano alla wave di cui Daniel Maman è tra gli esponenti di spicco non altera il marcato carattere identitario di una realtà che si è sempre mossa tra riflessioni sul sociale, afrocentrismo e scenari distopici, il tutto supportato da una spiccata visionarietà che – fatte le opportune differenze – colloca gli Armand Hammer in scia a un gruppo come i Cannibal Ox. Il potenziale gioco di contrasti che ne deriva è suppergiù il medesimo di “Rome” e “Paraffin”, rispetto ai quali viene però meno quella percentuale non irrilevante di brutalità che proprio non fa parte del lessico alchemico, a suo modo elegante perfino quando sembra che i sample siano stati tagliati dopo un paio di bicchieri in eccesso.
E quella di “Haram” è in effetti un’andatura ubriaca, puntellata da intermezzi e dialoghi che ne acuiscono il timbro onirico e compattano i quaranta minuti complessivi in un disco per soli palati esperti, abituati da un lato alla compassata verbosità dei due rapper e dall’altro alla totale mancanza di ruffianeria delle composizioni firmate dal produttore. Che è quanto emerge fin dal primo estratto video, “Sir Benni Miles”: premesso che, dopo le maiuscole, billy woods conferma di aver rinunciato anche all’esibizione del viso, il suo benvenuto ci immerge istantaneamente in un clima di profonda negatività (<<dreams is dangerous, linger like angel dust/ain’t no angels hovering, ain’t no savin’ us/ain’t no slaving us, you gon’ need a bigger boat/you gon’ need a smaller ocean but here’s some more rope>>), tensione respirabile altresì nella lenta strumentale che ondeggia in un tempo diverso dai canonici 4/4. Astratte, cupe e frastornanti sono anche la minacciosa “Indian Summer” (<<I swore vengeance in the seventh grade/not on one man, the whole human race/I’m almost done, God be praised/I’m almost done, every debt gets paid>>) e tanto più “God’s Feet”, una strana nenia funebre che sul finale aggiunge una breve strofa di otto barre; non il solito canovaccio fatto di ego e punchline, insomma, sebbene la scrittura degli Hammer – oltre all’abbondanza di oscure metafore e bizzarri storytelling – esibisca soluzioni tecniche di qualità, in particolare nell’uso di rime interne al verso.
Minime le differenze stilistiche tra ELUCID e billy woods, comunque riscontrabili nelle due solo tracks che si concedono: “Roaches Don’t Fly” per il primo, rabbiosa e più serrata nell’impostazione del flow (<<my new name colonizers can’t pronounce/bounce per ounce, more, what counts?/Kill your landlord, no doubt>>), “Robert Moses” per il secondo, una sorta di flusso di coscienza che sembra farsi condurre dall’evocativa tromba del beat più che sviluppare un tema in senso stretto. La somma delle parti, resa tanto più equilibrata dalle numerose prove in coppia, conduce a ipnotici incubi a occhi aperti (“Falling Out The Sky”), alle ruvidezze di “Chicharonnes”, con billy (<<negroes say they hate the cops/but the minute somethin’ off they wanna use force>>) e Quelle Chris (<<we let B.L.M. be the new FUBU/we ain’t bros>>) che non ci vanno giù leggeri, e agli accostamenti deliranti di “Stonefruit”, che appare ancora più obliqua e sgangherata grazie a un Alchemist pronto a mettere in battuta anche i campioni meno probabili.
Ostico, sì. “Haram” non è un ascolto facile né da sottofondo; e tuttavia esprime in maniera compiuta l’originalità della visione artistica che i tre protagonisti liberano con un fiume di pubblicazioni, non ultima (ci auguriamo) quella in esame.
Tracklist
Armand Hammer and The Alchemist – Haram (Backwoodz Studioz 2021)
- Sir Benni Miles
- Roaches Don’t Fly
- Black Sunlight [Feat. Kayana]
- Indian Summer
- Aubergine [Feat. Fielded]
- God’s Feet
- Peppertree
- Scaffolds
- Falling Out The Sky [Feat. Earl Sweatshirt]
- Wishing Bad [Feat. Curly Castro and Amani]
- Chicharonnes [Feat. Quelle Chris]
- Squeegee
- Robert Moses
- Stonefruit
Beatz
All tracks produced by The Alchemist except track #6 by The Alchemist and Earl Sweatshirt
Bra
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