Benny The Butcher – Burden Of Proof
Con la pubblicazione di “Burden Of Proof” si chiude un breve ciclo che ha impegnato i tre bad guys più attivi di Buffalo in altrettante prove il cui denominatore comune è dato da un cambio di prospettiva – mai radicale – nella determinazione del sound, con esiti variabili e tattiche non per forza coincidenti: se in “From King To A GOD” Conway ha deciso di sparpagliare le convocazioni, adottando una palette di colori più ampia del solito, in “Who Made The Sunshine” Westside Gunn si è limitato a esigere una pasta tutta nuova per le composizioni dei fidi Daringer e Beat Butcha (compito affidato a Young Guru), Benny The Butcher è invece entrato in studio di registrazione col solo Hit-Boy, reduce dal “King’s Disease” di Nas e autore di successo per una miriade di big che non stiamo neppure a snocciolare. Il rapper di “Tana Talk 3” si arrischia quindi nella scommessa più coraggiosa, perché rinuncia al clima soffocante dettato dalla sua etichetta e si confronta con una selezione di strumentali adatte a un’eterogeneità di palati, accorciando – sulla carta – l’atavica distanza tra underground e mainstream.
Quello del produttore californiano con due Grammy sulle mensoline non è infatti un abito disegnato su misura: tessuto e cuciture sono senza dubbio di alta fattura, la taglia è però standard e potrebbe calzare bene su un numero pressoché sconfinato di mc’s. La scelta pende su una spersonalizzazione che è all’opposto della consolidata strategia GxFR, forse spiazzando lo zoccolo più duro dei fan che ne colleziona – con punte di morbosità – l’intero catalogo; non si tratta di andare a cercare il consueto pelo nell’uovo: la riuscita (o meno) di “Burden Of Proof” va misurata in base alla capacità di Hit-Boy di farsi interprete delle storie e degli umori che Benny propone con immutata efficacia. Personalmente, durante i primi ascolti ammetto di aver faticato a entrare in sintonia con un percorso che non contempla ruvidezze né colpi bassi, assegnando al sampling un ruolo secondario rispetto alla gamma melodica opzionata: delle potenziali hit, accessoriate con profonde bassline e batterie che schioccano potenti (non la formula che ha reso celebre la label, insomma). Col trascorrere del tempo, mitigato il fattore aspettative, qualche riserva si è tuttavia sciolta, riscontrando un equilibrio nella maggior parte dei casi apprezzabile tra mcing e beatmaking.
Così sul tonitruante Funk della titletrack, dove il Macellaio mette presto in chiaro il salto di ambizioni e il contesto personale da cui queste originano (<<last year was about brandin’, this one about expandin’/…/threw the money on the table before the plug set the pricе/I was eager, ain’t no tomorrows, I could be dеad tonight>>), ma ancora più in quegli episodi che attingono in discreta percentuale dal ricettario di casa Griselda: la misogina “One Way Flight”, cullata dalla voce di Gloria Scott, cui partecipa anche Freddie Gibbs con ritornello e otto barre, l’ottima “New Streets”, che rivendica credibilità sul Soul dei The Independents (<<it’s rubbin’ me the wrong way when these rappers speak comfortably/about street life, it seems like they only givin’ y’all luxuries/I sat on work when I was positive it would sell/you know this game come with way more consequences than jail>>), e l’immancabile posse cut di stampo familiare (“War Paint”).
Non che Benny se la cavi solo quando la palla è ferma sul dischetto a undici metri dalla linea di porta. Nonostante il refrain zuccheroso di Queen Naija, “Thank God I Made It” si distingue per l’intensità del racconto biografico (<<I was raised by a woman, so shout out to single mothers/who had to teach their teenage boys to use rubbers/…/had to protect my family, so we played with guns/I can’t respect the man who don’t raise his son/…/real niggas look in the mirror and see each other/I look in my nephew eyes and I see my brother/sometimes I gotta look away, ‘cause it hurt so much/how that nigga died so young and he was worth so much?>>); l’estratto video “Legend”, puramente autocelebrativo, è un vivace compromesso tra il carattere rude del protagonista e quello più accomodante del suo compare; il tono amaro di “Trade It All” (<<I’m down soldiers, all the members of the gang I done lost/on this road to success and yes, it came at a cost/so don’t confuse what you hear, I put these jewels in my ear/’cause I wore the same pair of kicks to school for a year, nigga>>) è in sintonia con la nostalgica dominante dei synth. Viceversa, riuscire a raddrizzare “Timeless” (brutto il beat, irritante il featuring di Lil Wayne) e “Over The Limit” (qui Hit-Boy sembra sia andato del tutto a casaccio) richiederebbe un mezzo miracolo.
Diciamoci la verità: “Burden Of Proof” non proietterà Benny The Butcher negli ambienti più attenzionati e, in parallelo, non soppianterà “Tana Talk 3” nella lista delle migliori uscite Griselda; a dispetto di ciò, l’album è la conferma di un talento che ancora oggi ci appare sottoesposto, magari un filo indietro rispetto al carisma dei due cuginetti (altrimenti avremmo atteso qualcosa in meno dei quindici mesi intercorsi dall’EP “The Plugs I Met”), scalzati per converso di diverse sgambate in quanto a competenza tecnica e qualità della scrittura. Che richiami in cabina di regia i vari Daringer e Alchemist o allarghi ancora più la cerchia di amicizie, il risultato cambia dunque solo in termini di gusti soggettivi; quel che rimane su livelli ragguardevoli è la sostanza.
Tracklist
Benny The Butcher – Burden Of Proof (Griselda Records/Empire/Black Soprano Family 2020)
- Burden Of Proof
- Where Would I Go [Feat. Rick Ross]
- Sly Green
- One Way Flight [Feat. Freddie Gibbs]
- Famous
- Timeless [Feat. Lil Wayne and Big Sean]
- New Streets
- Over The Limit [Feat. Dom Kennedy]
- Trade It All
- Thank God I Made It [Feat. Queen Naija]
- War Paint [Feat. Westside Gunn and Conway The Machine]
- Legend [Feat. Hit-Boy]
Beatz
All tracks produced by Hit-Boy except tracks #4 and #7 co-produced by Jansport and #12 co-produced by G. Ry
Bra
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