Boldy James and The Alchemist – Bo Jackson
Ennesimo frutto di un ambiente ove il termine pyrex non indica certo una linea d’abbigliamento di moda, Boldy James non necessita di sollecitare la scrittura accomodandosi in salotto per fumare qualcosa e scorrere la filmografia di Francis Ford Coppola: gli è sufficiente bloccare il tempo e riesumare quell’odore di acrilico da cucina seminterrata, dopodiché ogni piccolo frammento di memoria riprende dolorosamente vita, divincolandosi tra cicatrici impossibili da chiudere. Laddove “My 1st Chemistry Set” ne inquadrava con successo la presenza nel vasto contesto del Rap criminoso forgiando un lavoro ricco di potenzialità, come pure di aree migliorative, questa quarta congiunzione di carriera col conclamato genio di Alchemist non solo conferma che il leggendario produttore sia colui che meglio di chiunque altro sappia estrarre le qualità più significative del quarantenne di Detroit, ma si porta appresso il gradito gusto della consacrazione, tanto naturale è l’equilibrio d’intenti tra due soggetti che confermano di coesistere a meraviglia.
“Bo Jackson“, che in copertina mischia ritagli di vecchie figurine dell’omonimo All-Star di baseball e football americano, amplifica quanto James aveva già opportunamente dimostrato. Se carisma, vocalità profonda e fredda, più la capacità di tradurre in versi il vissuto di strada con cognizione di causa facevano già parte dell’offerta, oggi si registra una progressione nella varietà del flow che salta all’orecchio sin dalla prima esperienza d’ascolto, una chiave di volta determinante nell’arricchire liriche generate dall’intenso vissuto trascorso sul filo del rasoio, tra gli angoli di strade tutt’altro che raccomandabili. Il rapper evoluisce a piacere tra le intuizioni di uno sperimentatore che non si limita a trasporre campionamenti, ma gioca con ogni bottone gli salti in mente, distanziandosi da ogni riferimento canonico. La sapiente regia di Alchemist ne espone tutta la contrarietà alle convenzioni, inserisce porzioni di sezioni ritmiche dove meno ce le si aspetta, smorza gli alti senza preavviso, frena, sfuma, taglia e soprattutto ricuce con quella perizia tecnica che separa di netto la voce producer da beatmaker, delineando l’eccellente senso di coesione che permea lo svolgersi del lavoro, interludi compresi.
Non ci si deve quindi sorprendere se si esordisce plasmando un doppio beat già nell’introduttiva “Double Hockey Sticks”, fornendo un test lirico impegnativo nonostante i pochi secondi passati dal fischio d’inizio, una sfida che Boldy raccoglie con estrema sicurezza di sé, per nulla preoccupato di dover riuscire a tenere quell’andatura. Tale concetto è asseverato da prestazioni di prima qualità, nate dall’affrontare sezioni ritmiche impervie per il loro inconsueto tambureggiare (“Speed Trap”), nonché dal sapersi misurare alla pari con personalità di spicco, parte di un elenco collaborativo di prim’ordine. Così, non è affatto facile tenere il passo del Benny di turno, in particolare quando il medesimo sforna flow vorticosi e doppi sensi a effetto (<<and I put a bitch in a white house way before Kamala Harris>>), ma James sa controbattere con una tensione metrica degna di una centrale elettrica (<<catch you lackin’ in the drug zone, my bullies revokin’ your G pass/niggas had them skullies rolled up for too long, they must’ve forgot they was ski masks>>), cavalcando abilmente la potente combo tra basso sintetico e cassa secca; ingredienti che, uniti alla piacevole ossessività del loop principale, rendono “Brickmile To Montana” rovente.
Interessante è altresì l’approccio pensato dal protagonista per “Photographic Memories”, l’allaccio tra barre ad accoppiamenti consecutivi tra esterno e interno erige un altro contributo coi fiocchi, che oscilla tra l’incedere strascicato di Earl Sweatshirt e l’ammirabile chiusura di sua maestà Marciano, sprezzante nel suo arrogare affermazioni di un certo peso (<<broke generational curses with my cursive>>). L’univoca strofa strutturata su assonanze apposte in chiusura di ciascuna barra storcendo adeguatamente le parole bacia direttamente in fronte “Diamond Dallas”, che pecca solo nella mancata assegnazione delle necessarie sedici all’apprezzato Stove God Cooks, limitato al solo ritornello in un tipo di beat che gli si sarebbe cucito addosso alla perfezione.
“E.P.M.D.” – nessun omaggio a Erick e Parrish, se non l’eco dell’elicottero di “It’s My Thing”, semplicemente everybody plottin my demise – denota invece la predilezione per la costruzione in quartine mantenendo un longevo combaciare tra rime prima di virare al suono successivo senza penalizzare la musicalità della pronuncia, destreggiandosi in atmosfere lugubri e fataliste, stese con maestria per accompagnare la tangibile ansia di particolari episodi. “Flight Risk” è poi così scura da poter anticipare un’esecuzione, il piano è da brividi, il loop vocale pitchato in negativo addirittura intimidatorio, strofa e ritornello si fondono in un’unica entità generando varianti compositive curiosamente sorrette proprio dall’immutabile tono di quella voce così priva di fluttuazioni emozionali.
Non per questo la fermezza timbrica corrisponde all’impossibilità di poter trasmettere sensazioni – anzi. “3rd Person” suscita parecchio ascoltando ripetutamente quel <<how many times you think that you can get away with murder?/My daughter and my son need me, so I can’t desert ‘em>> sopra a una malinconica chitarra d’annata, dando il via libera a consapevolezze impossibili da riporre definitivamente nel cassetto (<<on two different separate occasions, I was grazed twice – God bless/wish I could say the same for him, he couldn’t catch a break – tried/he hesitated, now that nigga in a better place – Amen>>).
L’album espone molta altra merce in grado di far propendere all’acquisto immediato, a patto che si riesca a trovarne il rimasuglio di qualche copia fisica. “Fake Flowers” e i suoi colpi subacquei di piano chiudono alla grande il cerchio dei featuring con la viziosa sbruffonaggine di Freddie Gibbs (<<I ain’t your mentor or your role model/Ferrari Monza got one seat, get a Uber, bitch, have them hoes follow>>); “Steel Wool” porta allucinazioni sonore da porre in costante ripetizione, mollando otto barre di ritornello che gioca con l’italiano e cibarie per amici domestici; “Turpentine” eccelle nella selezione del loop vocale che fa funzionare il pezzo, utilizzandone poi una porzione diversa per la seconda strofa; “Illegal Search & Seizure” esalta infine uno storytelling – la citazione di Double Dragon merita massimo rispetto! – che racconta di soffiate e assoluzioni, abbinandosi a un tappeto musicale tranquillo, evocativo del sollievo dato dall’averla scampata per una virgola.
Disco compatto, di quelli dove ogni singolo tassello dà la sensazione di trovarsi esattamente dove dovrebbe: “Bo Jackson” funge contemporaneamente da ennesimo colpo da maestro della stellare carriera di Alchemist e caloroso benvenuto a Boldy James tra i pezzi grossi del Rap odierno.
Tracklist
Boldy James and The Alchemist – Bo Jackson (Alc Records 2021)
- Double Hockey Sticks
- Turpentine
- Brickmile To Montana [Feat. Benny The Butcher]
- E.P.M.D.
- Steel Wool
- Photographic Memories [Feat. Earl Sweatshirt and Roc Marciano]
- Speed Trap
- Diamond Dallas [Feat. Stove God Cooks]
- Flight Risk
- Illegal Search & Seizure
- Fake Flowers [Feat. Curren$y and Freddie Gibbs]
- 3rd Person
- First 48 Freestyle
- Drug Zone
Beatz
All tracks produced by The Alchemist
Mistadave
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