Brother Ali – Secrets & Escapes
Venice Beach, California, è un luogo normalmente conosciuto per la spiaggia, il mare, i negozi lussuosi, i bikini, i muscoli, le piste da skate, le palestre all’aperto e tutti quegli aspetti e attività relazionati a un sole tra i più cocenti che si possano conoscere. Eppure lì, da qualche parte, esiste un luogo che con tutto ciò non ha nulla a che vedere, un’autorimessa temporaneamente trasformata in un piccolo santuario dove unire preghiere e fumo, entrambe origini delle differenti ispirazioni di due amici i quali, anziché trovarsi in un bar a fare quattro chiacchiere, hanno unito le forze realizzando un disco naturale, scorrevole, essenziale, facendosi contagiare l’uno dalla personalità dell’altro.
“Secrets & Escapes“, questo il titolo della meravigliosa intesa tra Brother Ali ed Evidence, non è infatti un lavoro allacciato a una particolare struttura concettuale, ma è frutto dell’improvvisazione, dell’attenta selezione del materiale più consono tra le varie cartelle di beat realizzati dal Weatherman e un profondo ascolto dei suggerimenti dell’anima, i quali hanno dato conseguentemente luce a liriche intrise di saggezza, ricerca interiore, sofferenza personale e senso di appartenenza a una Cultura nella quale rispetto, gratitudine e senso d’unione giungono prima di ogni altra considerazione.
Il breve ma sostanzioso album trascina costantemente con sé un innato senso di connessione, la quale si manifesta nelle forme più disparate e avvolge pure anche chi si ferma in quel garage solo per un breve contributo. Ali rappa incessantemente con occhi chiusi e mani giunte, quasi come uno spirito superiore che modifica il proprio flow a piacimento cantilenando i suoi versi come da sua tradizione, creando un contrasto vincente rispetto ai beat più secchi che Ev abbia da mettergli a disposizione – fornendo all’artista di Minneapolis una sfida inedita. “Abu Enzo” esprime, da questo punto di vista, un legame lapalissiano, perché laddove il testo cita frequentemente spiritualità e senso di disagio per la propria condizione corporea, la musica pone dinanzi agli occhi un’istantanea appena percettibile nella quale fanno capolino le lontane urla di Enzo, il figlio che Ev ha avuto dalla compagna prematuramente scomparsa, permettendo ai due artisti di farsi simbolicamente e vicendevolmente forza nel superare le lancinanti avversità che si manifestano con cadenza quotidiana.
L’esigenza di incanalare il dolore si manifesta opportunamente anche in passi come “Red”, uno dei beat più dopati che il signor Perretta riesca a estrarre dalla voluminosa memoria del suo Mpc, prendendo anch’egli in mano il microfono e creando quell’attinenza riscontrabile nelle chiusure delle rispettive strofe, la quale – grazie all’uso figurativo dell’occhio arrossato – srotola quel filo comune la cui simbiosi deriva da presupposti del tutto contrari, scoprendo un’idea di fondo geniale. Neppure l’istrionico Pharoahe Monch si tira indietro quando chiamato in causa, la visione manifestata nella strofa buttata giù per “Situated” è contrapposta a quella dell’attore principale, ma alla fine l’una è pure la diretta conseguenza dell’altra: laddove Ali omaggia chi questa Cultura l’ha inventata, riverendo gli originators con umiltà e forte riconoscenza, l’ex Organized Konfusion infiamma lo scenario con uno stuolo di doppi sensi ed eccellenti giochi di parole, assumendo le varie forme di quella blackness di cui lui possiede diritto acquisito per motivazioni genetiche, ma che viene concessa in dote anche a quei bianchi che dimostrano di avere l’onestà morale e la conoscenza necessarie per ricevere il permesso di plasmarla a loro volta.
E’ una linea che viene tenuta in maniera del tutto similare pure su “Father Figures”, uno dei pezzi musicalmente più intensi ed emozionanti, dove stavolta è la produzione a fare un passo verso il rapper donando quel maggior senso melodioso a quella soda muscolatura boom bap, sottolineando nuovamente la devozione (<<I’m from a long line of writers and teachers/and spend all of my time with guides and seekers/and criminals and preachers>>) e consentendo alle liriche di fungere ancora da apertura e liberazione, parlando a ruota libera tanto del disagio di quel corpo quanto della sensazione di abuso generata dalla citazione di un particolare episodio realmente accaduto. Più volte Brother Ali si definisce perso e sente di dover tentare la fuga per placare l’angoscia, dando luogo alla profondità dei messaggi di una “Greatest That Never Lived” che vive a metà tra positiva consapevolezza e disperazione, mettendo assieme consonanze da vero campione e tentando di evocare quel tanto ricercato sollievo fingendo di trovarsi dentro un costume appositamente scelto (<<I don’t have a soul, I am a soul that got a body/flesh-clad, like human being is what I’m dressed as at a costume party/I decide to go with the half-blind albino/eyes red rhinestones, odd choice, y’already know>>), quasi fosse l’ultimo, dannato tentativo di escludere quel malessere dalla propria esistenza prima di farsene definitivamente una ragione.
Il continuo manifestarsi dei demoni interiori, peraltro ben contrastato dalla rilassatezza di soluzioni produttive fresche come quella scelta per la titletrack, risulta tutto sommato bilanciato dalla presenza di quel piccolo gruppo di tracce atte a variare l’offerta per quel che basta. Ali e Talib Kweli trovano un comune terreno fertile nell’offrire pane per i denti di chiunque osi sfidare la profondità delle rispettive rime, prendendo le distanze dagli incapaci che tentano di traviare e storpiare la direzione dell’Hip-Hop (“De La Kufi”, tra l’altro costruita su un beat che somiglia parecchio a quello di un Apollo Brown in edizione The Left); si scagliano qundi dardi roventi e appuntiti contro i cliché della società moderna per mezzo di rime di una classe per molti inarrivabile (<<look at these big headed fools, climbin’ up their pedestals/where do you think you go from there? Bring me back a souvenir/go declare your greatness in the open air/throw a show and tell ‘em they supposed to stare, I don’t think you’re so prepared/nobody’s sober where there’s followers and shares/and eyeballs for modeling your wears>> – “Red Light Zone”) e si chiariscono infine concetti semplici ma che tendono troppo spesso a sfuggire da troppi radar, come nel caso dell’iperabrasiva “The Idhin” (<<I don’t feed the machine, I feed human beings/don’t perform for the form, but what it truly means>>).
Composto da appena trentatré minuti di durata ma contraddistinto da un’intensità lontana dal comune, “Secrets & Escapes” trama nell’ombra prima di arrivare a sorpresa, senza preavviso né meccanismi pubblicitari, raggiungendo con pienezza l’intento che Brother Ali ed Evidence si erano prefissati tra le cianfrusaglie di quello studio improvvisato: colpire il cuore con versi provenienti dall’essenza del proprio io, fruendo di quella medesima spontaneità con cui il campionatore mette assieme ritmi che non hanno bisogno di interessare il grande pubblico, sono belli per il loro sapersi presentare così come sono, puri e privi di superflue rifiniture. Ed ecco che, con assoluta magia, una manciata di sedute di registrazione concepita con la massima estraneità verso le leggi del mercato partorisce un piccolo, grande capolavoro, regalando nuove speranze a un panorama che da qualche anno fatica a proporre prodotti in grado di colpire davvero in profondità, se non grazie ai provvidenziali interventi di una ristretta cerchia di soliti noti della quale i due protagonisti di questa recensione fanno indissolubilmente parte.
Tracklist
Brother Ali – Secrets & Escapes (Rhymesayers Entertainment 2019)
- Abu Enzo
- Situated [Feat. Pharoahe Monch]
- Greatest That Never Lived
- Father Figures
- Apple Tree Me [Feat. C.S. Armstrong]
- Red [Feat. Evidence]
- Secrets & Escapes
- De La Kufi [Feat. Talib Kweli]
- Red Light Zone
- The Idhin
- They Shot Ricky
Beatz
All tracks produced by Evidence
Mistadave
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