Common and Pete Rock – The Auditorium Vol. 1

Voto: 4,5

Due figure osservano l’imponente architettura del Kings Theatre di Brooklyn, New York, il quale reca il nome della loro opera prima, in classico stile americano, con le tipiche lettere bianche intercambiabili disposte su fondo nero, un simbolismo quasi mistico, il quale sta a significare che se ce l’hai fatta nella Grande Mela, ce la puoi fare ovunque. E’ il luogo dell’immortalità acquisita, vetta di una scalata partita in tempi oramai lontani ma vividi nel ricordo di ciò che è stato, nella sua forma irripetibile e sfarzosa, il meritato riconoscimento per aver corteggiato, amato, convissuto con quella H.E.R. così affascinante, totalizzante, motivo di luce e gioia, alterata dal trascorrere delle decadi eppure ancora pura nel suo io più intimo, nella sua rappresentazione di quel qualcosa di intangibile che tante emozioni ha dato – e tante ancora ne fornirà.

I due individui non sono altro che rappresentanti imprescindibili di un corso che ha recentemente varcato la soglia del mezzo secolo: uno è un lyricist della Chicago più meridionale, quella più disagiata, che soleva chiedere un dollaro in prestito sulla copertina di un esordio che difficilmente avrebbe potuto far pronosticare una carriera così ricca di soddisfazioni (anche al di fuori dell’ambito musicale); l’altro ha scritto la storia delle produzioni Hip-Hop da una cantina di Mount Vernon, sobborgo newyorkese direttamente confinante con il Bronx, svaligiando la collezione di vinili di casa, tagliando e riassemblando sonorità black che hanno segnato un’epoca, finite all’interno di una discografia ristretta ma assai significativa, che all’indiscusso talento del Chocolate Boy Wonder aveva gloriosamente abbinato il carisma lirico del Caramel King per antonomasia, confezionando, tra l’altro, quella “They Reminisce Over You” destinata a durare in eterno.

Il sodalizio tra Common e Pete Rock giungeva accompagnato da quella sensazione viscerale, istintiva, che aveva inconsciamente garantito il successo dell’operazione a prescindere, tanta era la sicurezza di non poter rimanere delusi dalla congiunzione di queste icone del Rap statunitense, intuivamo che i due sapessero benissimo di cosa i fan avevano bisogno e che il tutto non si sarebbe ridotto a una semplice evocazione del passato o a un progetto di clamore esclusivamente nominale, giungendo invece a una realizzazione caratterizzata dalla massima espressione sinergica delle rispettive peculiarità. Uno stato di forma impeccabile, inalterato dal trascorrere delle stagioni, espresso per mezzo di una perizia tecnica eccelsa qualsiasi sia il settore che si analizzi: se Peter dimostra di essere sostanzialmente infallibile nel dare un’anima ai loop sequenziando ogni elemento con l’esperienza di chi conosca l’evoluzione del beat ancor prima di metterci mano, Rashad esegue un sopraffino lavoro di penna distinguendosi come sempre per eleganza, profondità e attrattiva, esprimendosi attraverso un frasario ricco di varietà e qualità nelle soluzioni metriche e figurative, con quella voce deliziosamente calda e profonda, perfettamente incastonata sulla matrice Jazz/Soul che i campionamenti prediligono.

L’idea che dalla pentola in ebollizione stesse per uscire qualcosa di assai succulento era stata suggerita da uno squisito primo estratto, “Wise Up”, volutamente denso nel suo sapore old school grazie al breakbeat della mitologica “The Bridge” e alla riconoscibile voce di MC Shan a costituire il ritornello, cui veniva sovrapposto un sample semplicemente perfetto per donare al pezzo una sensualità del tutto mistica. <<Three wise men came to visit where I’ve been/thеy brought gifts with the southside blend/onе had Hennessy – the other, a book of street ministry/the third gave a mirror and told me to remember me>> è un attacco che l’orecchio ha già acquisito al primo ascolto, il calore emanato dalle corde vocali è avvolgente, rassicurante, i giochi di parole entusiasmanti (<<my man ain’t from Dallas, but he know where the TEC’s is – hold ‘em/my poker face is golden>>) e le citazioni nostalgiche fanno venire i brividi lungo la schiena (<<I unruled the fears so that I could get biz/like the diabolical and do the improbable>>), costituendo il preambolo per un disco che si preannunciava memorabile e tale conferma di essere. “The Auditorium Vol. 1” è infatti una prova impegnativa, all’interno della quale ambedue i protagonisti non potrebbero adeguatamente muoversi se privi di quell’essenziale maturità nella gestione di ciascuna sfaccettatura del gioco, offrendo un lavoro completo, equilibrato e godibile nonostante l’ora da investire nell’ascolto, completando l’opera alla buona e vecchia maniera, con piena coscienza tanto dei propri mezzi quanto delle grandi potenzialità che l’album aveva da offrire.

L’apertura è fastosa quanto la storia di quel fabbricato in copertina, Common sogna a occhi aperti ed elabora i suoi pensieri rievocando ogni possibile figura che abbia contribuito alla storia della comunità, appuntando ideali medaglie all’onore attraverso un trattato nella rappresentazione di barre collegate tra loro – una costante di tutti i testi – accompagnato dalla dolce vocalità di Aretha Franklin e da fiati celestiali, che la sapiente mano di Pete taglia e riordina dando vita a un brano nientemeno che formidabile. Sezioni di tromba come quella pensata per “This Man” originano un ambiente rilassato, confortevole, consono alla naturalezza con cui la tessitura lirica forma passaggi carichi di legami profondamente intelligenti (<<born to fly but still see the ground, in life, I rebound/like Draymond to get green, I’ve been on the inseam of big things/so my whole team could get rings/Saturn returns, some patterns were learned>>). Il wordplay, ricco di termini fatti suonare allo stesso modo, fa compagnia alla fantasia che colloca l’emozionante “So Many People” una spanna sopra, l’idea è vincente e dedica una strofa ciascuno a destino, fede e saggezza, facendo di loro una triade sacra grazie anche alla toccante sensibilità della strumentale.

I cori e i cantati campionati, scovati non solo dalla tradizione nera, rappresentano un inequivocabile punto di forza della produzione. La melodia prelevata per “Lonesome” è ad esempio cortesia di una band Garage di Nashville (Mindy Dalton & The Feminine Complex), congrua nel suo rispecchiare il lato più vulnerabile delle liriche grazie all’armonioso sample di chitarra acustica; la gratitudine e riconoscenza manifestate su “Fortunate” si avvalgono del ritornello di Ivan Lins, compositore brasiliano, donando al brano un elemento di vivacità ritmica e brio sudamericano; la coscienziosa “We’re On Our Way”, riflessiva nel suo elucubrare sui progressi interiori della vita, gira attorno a un melodica chitarra e alle percussioni, il modo in cui Pete inserisce la soffice timbrica di Curtis Mayfield nel contesto è poi semplicemente fenomenale. Dal gruzzolo avremmo sottratto solo una “All Kind Of Ideas” un pò anonima – sa di singolo scelto esclusivamente perché Pete vi si barcamena alla meno peggio con una strofa personale – e, si sa, è necessario accettare quegli episodi nei quali Common tende a vestire la parte del profeta religioso e imbocca la tangente dei Five Percenters, pur facendolo con la solita, immensa classe, come dimostrato dall’enigma numerico inverso (!) presentato in “A GOD (There Is)”, una chicca di rara abilità.

L’abbiamo desiderato ardentemente e ora è una spettacolare realtà, che entra di diritto tra le migliori uscite che gli ultimi anni siano riusciti a regalarci. Semmai quel vol. 1 facesse sottintendere che vi sarà un prosieguo della collaborazione, ci immaginiamo già seduti in prima fila ad attendere nell’atmosfera di quel teatro maestoso, che emana grandi imprese artistiche dalle sue fondamenta e ora apre metaforicamente le porte a due autentici Hall Of Famer del Rap.

Tracklist

Common and Pete Rock – The Auditorium Vol. 1 (Loma Vista Recordings 2024)

  1. Dreamin’
  2. Chi-Town Do It
  3. This Man
  4. We’re On Our Way
  5. Fortunate
  6. So Many People [Feat. Bilal]
  7. Wise Up
  8. A GOD (There Is) [Feat. Jennifer Hudson]
  9. Stellar
  10. Lonesome
  11. All Kind Of Ideas [Feat. Pete Rock]
  12. When The Sun Shines Again [Feat. Posdnuos]
  13. Everything’s So Grand [Feat. PJ]
  14. Now And Then
  15. Outro

Beatz

All tracks produced by Pete Rock except track #15 by Pete Rock and The Soulquarians

Scratch

All scratches by Pete Rock

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