Conway The Machine – G.O.A.T.
Fin dalle sue prime pubblicazioni, grosso modo quattro anni fa, Griselda Records/Fashion Rebels è diventata una delle realtà di riferimento per il Gangsta Rap di matrice east coast (siamo a Buffalo, sul confine tra Stati Uniti e Canada, a circa seicento chilometri da New York): i due fratelli Alvin Worthy e Demond Price, non esattamente dei novellini all’interno della scena locale, hanno ravvivato una nicchia che sembrava aver esaurito dosi ingenti del proprio potenziale in seguito all’appannamento di figure apicali come – tanto per buttare lì un nome a caso – quella dei Mobb Deep, muovendosi con una scaltrezza unica (e vai a capire quanto consapevole e premeditata) sul fronte del marketing. Mixtape (che non sempre sono tali) rilasciati con frequenza costante, il free download, edizioni limitate in CD, vinili realizzati tra Londra (Daupe!) e Roma (Tuff Kong), streetwear fatto in casa e venduto tramite lo store online, un taglio grafico che sfiora spesso la Pop Art; il tutto nel segno dell’assoluta indipendenza, attitudine che – in attesa di capire quali saranno gli sviluppi dell’accordo sottoscritto negli uffici della Shady Records – “G.O.A.T.” conferma in pieno.
Lanciato a dicembre su Soundcloud a chiusura di un semestre che aveva visto Conway The Machine impegnato prima in “Reject On Steroids” e poi in “More Steroids”, l’ultima fatica dell’mc conta dieci brani per una durata complessiva di tre quarti d’ora esatti, affidando all’immancabile Daringer la responsabilità dei suoni e siglando collaborazioni con – tra gli altri – Raekwon, Prodigy, Royce Da 5’9’’ e Styles P. Nonostante i numerosi impegni portati a termine e pur considerando l’assenza di novità significative, non siamo di fronte né a un’operazione di mero riciclo, compilatoria, né a un lavoro realizzato mediante il pilota automatico. Piaccia o meno il genere, Conway continua infatti a prendersi maledettamente sul serio e gran parte dei pregi posseduti da “Grimiest…” risiedono nella cruda tensione che si respira dietro ogni barra: <<look, click clack and this big ratchet I clap it/six pack, I heard his ribs crack/and splash the wall with wig fragments/kidnappings, murders and stabbings, bitch, this shit happens>> è la prima, vivida immagine offerta dalla titletrack mentre la sinistra strumentale dipinge a tinte scure la scenografia in cui si muovono i protagonisti di questo e di altri incubi metropolitani.
A proposito di cinema e di un immaginario che nell’Hip-Hop si è riversato in un’infinità di racconti a sfondo criminoso, vale la pena sottolineare che le liriche proposte da Conway – ferma restando la presenza di molteplici cliché – affondano anzitutto in un vissuto trascorso ai margini della legalità e del quale il Nostro conserva ricordi tangibili: <<ok, I get it, my face is twisted/but considerin’ my facial image what nigga spit it the way I spit it?/Think about it, I’ll wait a minute>> ironizza in “Bullet Klub” riferendosi alla paresi che ne sfigura il volto da quando un colpo di proiettile gli si è conficcato nella nuca. Non che ciò sia motivo di vanto, sia chiaro, tuttavia pone in una luce meno grottesca le minacce indirizzate senza tregua (“Trump”: <<talkin’ like you a killer, well motherfucker come show me/I already sent the youngin’ through there bustin his .40/nigga shot up your whole block and he hit one of your homies/nigga we already know you pussy, you cover your Rollie>>), l’infinita sete di rivalsa (“Die On Xmas”: <<every line exquisite/grimiest of all time to pen this/when you try and mention top five guys that did it/why ain’t I enlisted? That I find ridiculous/considerin’ we ain’t seen nobody this consistent/since like ’95-’96ish>>) e la fitta cronaca di episodi violenti.
Canovaccio a parte, l’altro elemento distintivo della label è un canone estetico divenuto inconfondibile tanto nell’approccio al Rap quanto nell’individuazione di una soundtrack che rifiuta qualsiasi tipo di fronzolo, ma se in merito al primo aspetto è sufficiente dire che al flow compassato e pastoso viene abbinata una discreta carrellata di rime interne, sul secondo conviene spendere qualche parola in più. Premesso che il solito parallelo tra Daringer e il sound della golden age a me sembra un po’ forzato, dato che le similitudini si riducono per lo più alla costante del sampling, ci sono pochi dubbi sul ruolo determinante del produttore, qui come ad esempio in “Reject 2” e “FLYGOD” (in un’equazione matematica diremmo che sta a GxFR come Dj Premier sta a Gang Starr Foundation): l’impronta asciutta e minimale delle strumentali è una prerogativa evidente delle sue composizioni, riecheggianti più KA e Roc Marciano che RZA (in certa misura citato in “Th3rd F”, non a caso con Rae). Le atmosfere sospese, ipnotiche, unite alla ruvidezza di batterie marcissime o, viceversa, spogliate da qualsivoglia sezione ritmica, sono il combustibile migliore per le strofe lente e ossessive del padrone di casa e di chi lo affianca – ecco, tra i featuring avremmo gradito una capatina di Westside Gunn.
Il risultato, rimanendo in tema, è infiammabile anche al netto dell’oggettiva ridondanza che si riscontra tra i vari progetti della crew; questo però a Conway non lo diremmo neppure sotto tortura, data l’abilità incontrastata che rivendica nel far saltare mascelle col calcio di una pistola…
Tracklist
Conway The Machine – G.O.A.T. (Griselda Records 2017)
- G.O.A.T.
- Trump
- Th3rd F [Feat. Raekwon]
- Die On Xmas [Feat. Benny The Butcher]
- Rodney Little [Feat. Prodigy]
- XXXtras
- Bishop Shot Steel
- Mandatory [Feat. Royce Da 5’9’’]
- Arabian Sam’s [Feat. Styles P]
- Bullet Klub [Feat. Lloyd Banks and Benny The Butcher]
Beatz
All tracks produced by Daringer except track #2 by The Alchemist
Bra
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