Homeboy Sandman – Don’t Feed The Monster

Voto: 3,5

Apporre cambiamenti talvolta necessari alla svolta della propria esistenza è un’impresa tutt’altro che agevole, visto che, per metterli in atto, è necessario rischiare, uscire da una zona di comfort assecondando istinti più volte repressi a causa di radicate convinzioni che, prima o poi, fanno a pugni con l’essenza e con la libertà espressiva. Durante la sua crescita artistica, Homeboy Sandman ha costantemente perlustrato le strade meno battute, cercando di far affiorare le proprie idee separandole dai condizionamenti ricevuti e dai traumi subiti, aprendosi ai lati più scuri e bizzarri del proprio perimetro permettendo l’espressione di una personalità in tutte le sue sfaccettature, comprese quelle che occasionalmente generano il pericolo di cadere nella contraddizione. L’artista oggi di casa presso la Mello Music Group ha emancipato impulsi che privilegiano l’ascolto dell’io e la ricerca della propria felicità, consapevole del possibile distacco che ciò può provocare nei rapporti interpersonali, identificandosi come un’entità che ha ben chiara quale sia stata la sua evoluzione umana alla soglia dei quarant’anni ma che ancora non ha definitivamente messo a fuoco la propria identità.

Inevitabile, da questo punto d’osservazione, andare a scavare nel passato per meglio comprendere il proprio presente, rendendo coerente la decisione di cominciare l’operazione condivisa a metà con Quelle Chris attraverso una revisione delle lesioni interne provenienti da differenti fasi della vita, affidando a “Trauma” il compito di far uscire i demoni attraverso confessioni mai emerse in precedenza, soffermandosi sui contraccolpi che il rapporto con i genitori ha sortito nella formazione individuale, approfondendo in maniera esemplare il legame cronologico e consequenziale dei vari episodi, riponendo nel cassetto dei ricordi più difficili da riesumare anche una necessaria accettazione di sé. Proprio per motivi simili a questo “Don’t Feed The Monster“, titolo che inneggia al lasciar andare le proprie paure, risulta essere il disco più personale mai scritto dall’arguto newyorkese di origine portoricana, tutto sommato sereno nel gestire i vari aspetti appartenenti alla sua complessità, seppur in coscienza di dover saltuariamente affrontare nuove offensive, sferrate dal contrasto tra le modalità attuative della propria vita e la loro insofferenza verso le indicazioni fornite tanto dall’educazione genitoriale quanto dai dettami della società.

Il processo di autoliberazione mentale tocca parecchie tappe, tutte contraddistinte dal loro differente stato d’animo. “Scare You” affronta la questione in maniera volutamente polemica, accentuando tale scopo attraverso la pesantezza di un beat assai intricato su cui adagiare le rime – non certo un problema, vista l’estrema adattabilità tecnica in dote al soggetto – e ingaggiando una lotta serrata e divergente rispetto al pensiero comune, modalità esattamente opposta a quella espressa su una “Shorty Heights” di spiccata sensibilità, adornata da un loop di flauto delicato e commovente, adeguato per esprimere la propria convinzione nell’aver realizzato maturazioni determinanti nonostante il lavoro non sia mai in realtà terminato. “Don’t Look Down” raccoglie invece una serie di elucubrazioni generate da emozioni istintive nate da situazioni al limite, un mettersi alla prova il cui significato concettuale è ben esplicato nelle tre strofe di differente contenuto ma di uguale significato morale, toccando anche la precarietà della propria condizione tra un saltello e l’altro provocato da un beat avvolgente nel suo incedere ritmico.

In un contesto votato alla personale scarcerazione mentale, spiccano inevitabilmente passaggi come “Extinction”, se non altro per licenze di scrittura noncuranti del rispetto di specifiche forme (<<I wish that I could give the planet earth a spanking/to vent frustrations I allude to in the hook>>), scoprendo tuttavia il fianco ad alcune lacune evidenti, qui e altrove rappresentate da set di batteria troppo macchinosi, dalla tendenza a essere insistentemente ripetitivi coi ritornelli e dall’eccessivo giocare di Quelle Chris con i collage sonori, dando vita a creazioni potenzialmente stuzzicanti ma penalizzate da quell’intenzionale dissonanza che vorrebbe sì spingere l’estro, ma in maniera così forzata che non sempre risulta essere poi così gradevole. Un peccato, perché il brano appena menzionato meriterebbe ad esempio attenzione per la capacità di sorreggere una duplice destinazione delle liriche, insinuandosi in suoni che paiono essere registrati da intercettazioni spaziali, una sensazione di riuscito a metà simile a quanto manifestato da “Stress”, ennesima crociata del rapper contro la frenesia dell’esistenza attuale ove la creatività del ritornello – interessante quel conteggio a salire abbinato a una rima sempre diversa – cozza malamente con quella cocciuta ripetitività, spezzando il ritmo a una situazione già statica di per sé.

Tra gli indubbi pregi, “Don’t Feed The Monster” annovera la destrezza con cui si passa dal trattare argomentazioni interiori allo spiccato spasso insito in una “Waiting On My Girl”, costruita su musicalità che paiono estratte da un cartoon degli anni trenta, scatenando la consueta esasperazione umoristica di Sandman (<<I love her and we’ll never ever break up/but why it take 100 million years to do her makeup?/…/do I even have to mention/the bathroom is like another dimension/what goes on inside is something I could never explain/time exists on an entirely different plane>>); un trattare i sentimenti comunque capace di rientrare nei ranghi quando la circostanza lo richiede, trovando nel malinconico soppesare di “Alone Again” il modo più opportuno di raccogliere i propri sbalzi d’umore, pensieri ponderati, a volte divertiti (<<being happy is the object/I could always learn the way to make an omelette>>), in altre avvolti dalla solitudine (<<I’ma just try to enjoy myself/but this is not where I saw myself>>), partoriti da una meditazione esercitata su un Jazz moderno e minimale. Il mostro del titolo si manifesta chiaramente tra le righe di una “Gestation” opportunamente lugubre e allucinata, lasciando spazio alla perlustrazione degli angoli più cupi della propria testa, un esercizio simile a quello svolto da “Walk By Faith” con risultati poco convincenti, dato che il viaggio all’interno di spiritualità, controversie della personalità e senso di responsabilità è reso ancora più pesante dalla cattiva decisione di rallentare all’estremo il flow, rendendo il pezzo una noia mortale, effetto del tutto appaiabile a quella sorta di fastidiosa vuvuzela (o qualcosa del genere) che tanto si vorrebbe scacciare dall’impalpabile “Triple Warner”.

“Don’t Feed The Monster” è un’immersione profonda alla ricerca di sé e delle motivazioni che ci spingono in determinate direzioni, sostenuta da un lavoro lirico concettuale e complesso cui si abbina una produzione troppo carica di eccentricità. <<The old me don’t owe me, we all make mistakes/the new me’s the true me, since all fears has been faced>>: non esiste miglior modo di questa dichiarazione d’intenti tratta da “Straight” per racchiudere il senso di questo disco, sottolineando quel sofferto ma necessario passaggio dal vecchio al nuovo, dando forma a un qualcosa che in fin dei conti non è nulla di così diverso da prima, ma è semplicemente più completo e consapevole di ciò che si desidera per sé.

Tracklist

Homeboy Sandman – Don’t Feed The Monster (Mello Music Group 2020)

  1. Trauma
  2. Extinction
  3. Stress
  4. Hello Dancer [Feat. Quelle Chris]
  5. Waiting On My Girl
  6. Shorty Heights
  7. Scare You
  8. Don’t Look Down
  9. Monument
  10. Triple Warmer
  11. Biters
  12. Alone Again
  13. Walk By Faith
  14. Gestation
  15. Straight

Beatz

All tracks produced by Quelle Chris

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