Intervista a Chef Ragoo (29/06/2021)
Classe ‘72, attivo fin da giovanissimo nella scena Punk italiana come voce e batterista, approdato al Rap già nei primi anni novanta, quando (con Brusco) dava vita alla Vatican Posse, Chef Ragoo è a tutti gli effetti un veterano dell’Hip-Hop, presente – e non in veste di spettatore – quando questa roba era ancora un’utopia, più che una nicchia. Ci incontriamo in un tardo pomeriggio di fine giugno al Radiation Records di Monti, dove lavora, mentre fuori il termometro non accenna ad arretrare dai valori in rosso, dirigendoci poi verso l’ipotetico fresco di una panchina di Villa Aldobrandini. Dobbiamo parlare di un disco, “Novecento”, che reclama diverse domande; l’occasione, però, è troppo ghiotta per non cominciare dall’inizio, tentando di ricostruire un percorso quasi trentennale, saltuario per frequenza ma stoico come pochi sul versante dell’attitudine…
Bra: nei miei ricordi di adolescente, ascolto per la prima volta la tua voce in “Neffa & i messaggeri della dopa”, quando ti firmavi P.P.T., e poi nel mixtape “La banda der Trucido”. Ma la tua, come sappiamo, è una formazione puramente Punk: come si compie questa transizione?
Chef Ragoo: guarda, è un po’ paradossale questa cosa perché nessuno ci pone mai l’accento; o forse sono io che tendo a mettere sempre il Punk avanti. Però: Gopher, Punk; Neffa, Punk; Deda, Punk; DeeMo, Punk; Lion Horse Posse da Milano, Punk; non so quanti rapper partenopei, Punk… Il punto è che questa cosa è successa anagraficamente, è fisiologica perché prima del Rap in italiano la musica dei compagni e dei centri sociali era il Punk, da noi – molto più che in altri paesi – legato a una linea politica abbastanza definita. Anche quando era fatto da anarchici, in qualche modo era legato a chi occupava, agli autonomi o a cani sciolti che si rifacevano a quell’ambiente. A Roma, se eri un Punk, conoscevi quel giro. Fino all’uscita di “Batti il tuo tempo” – e questa cosa all’epoca mi fece molto rodere il culo, perché mi sembrò una barzelletta dal punto di vista della coerenza – nei centri sociali i concerti Punk erano molto ben visti, ci venivano tutti; poi si passò alle dancehall, anche cose molto belle, e agli eventi Punk cominciò a venire meno della metà della gente, forse perché la domanda de ballà finalmente trovava una risposta nelle posse. E poi c’era il discorso del microfono aperto, quello sì molto interessante: andavi al Forte (Prenestino, ndBra) e ti sentivi la selezione di Ragga giamaicano o di Rap americano, prima di quaranta minuti/un’ora di chiunque volesse salire sul palco a fare rime – e magari a volte ne venivano fuori cose orrende. Ma siamo partiti tutti facendo un po’ cagare, perciò va bene così; nel mio caso, ero perplesso un po’ dall’insieme: non conoscevo il Rap americano se non di rimbalzo, arriva quello in italiano e per forza di cose “Batti il tuo tempo” e “Terra di nessuno” me li so’ magnati. Conservando certe idee e rimanendo fedele a quello che dicevamo due anni prima nei centri sociali, cosa che ritenevo indispensabile, ma comunque smussando alcuni spigoli e ritrovandoci a fare cose per noi nuove.
B: tra gli altri citavi Neffa che, fatte tutte le differenze del caso, ha compiuto un percorso simile al tuo, approdando all’Hip-Hop da un genere diverso. Oggi l’atteggiamento da parte della scena sarebbe forse un po’ più ostile, diffidente…
CR: anzitutto, Neffa mirava a vivere di musica. Senza per questo biasimarlo, eh. Diciamo che l’esperienza comune per me a un certo punto si ferma, perché questi generi – il Punk come l’Hip-Hop – rappresentano una forma espressiva in cui è consentito dire tante cose. Ciò che non vale per il Pop, però ognuno fa il suo percorso. Il suo orizzonte era un altro, il mio poteva anche diventare quello, ma mi facevo talmente tanti problemi di coscienza che a ogni passo c’era una voce che mi diceva no frate’, fermati; e quindi manco c’ho provato più di tanto, per la verità. Né è detto che ci sarei riuscito, in ogni caso.
B: la tua è una presenza abbastanza centellinata. Firmi qualche collaborazione, diventi un volto rappresentativo della scena, pubblichi il tuo primo EP, “Explorandom”, partecipi da protagonista a “Zora la vampira” dei Manetti e poi, in quel gorgo nero che è stato il biennio 2001/2002, sembri allontanarti dal Rap. Come mai?
CR: ma lo sai che io non me ne sono quasi accorto di questa sparizione del Rap? Mi sono accorto che un po’ di gente che avevo attorno e che magari neppure frequentavo nel mio quotidiano si chiamava fuori. Non continuavano, prendevano altre strade, i gruppetti si smembravano… Io però, dopo “Zora la vampira” e per la questione del dover fare della musica il proprio lavoro, ero già molto in crisi di mio: ho avuto un eccesso di fiducia in me stesso, cosa che non mi era mai capitata prima, e il seguito che avevo immaginato non è arrivato. Comunque non abbastanza da compensare tutte le aspettative che avevo calato dentro questa cosa, perciò tanta depressione e mi sono chiamato fuori da tutta la musica e in un certo senso anche dalla vita. Un brutto periodo, da cui sono uscito con un primo percorso da una psichiatra, un brevissimo passaggio attraverso gli antidepressivi e poi un lungo lavoro di psicoterapia.
B: a proposito di “Zora…”, una domanda molto nerd all’appassionato di cinema e al tuo personaggio – il quale, magari a sorpresa, lottava con le forze del bene. Max Schreck, Bela Lugosi, Christopher Lee, Klaus Kinski e Gary Oldman: chi è il miglior Dracula del grande schermo?
CR: la verità è che se c’è una sottocategoria di cinema horror che non amo molto, è quella del vampiro, perché la sua eleganza mi disturba. Però, di questi qui, dico senza dubbio Max Schreck: un’icona. Lugosi è già più raffinato; mentre Lee è quello della mia infanzia, a cui sono abituato, mi ci sento legato soprattutto per questa ragione. In generale, Dracula al cinema mi fa cagare; sono per gli zombie e per gli horror più muschiosi, zozzi, ruvidi e bui, senza i mostri classici ma dove magari c’è tanta polpa.
B: veniamo ai Lolocaust, coi quali realizzi due album. Torni al Rap e ti ritrovi coinvolto in un collettivo che estremizza uno dei tuoi lati, quello più dissacrante: che tipo di esperienza è stata?
CR: se non avessi già ripreso a fare Rap, non sarei mai arrivato ai Lolocaust. Un giorno mi scrive su MySpace, la piattaforma dell’epoca, Kento, che ancora non conoscevo bene e del quale sapevo poco, ovvero che aveva suonato per diverso tempo con Gli Inquilini, e mi dice che sta facendo un disco che si chiama “Sacco o Vanzetti” e vorrebbe il featuring di un rapper anarchico; io partecipo molto volentieri e la cosa mi ha fatto rimettere in moto tutta una serie di meccanismi che poi mi hanno portato a scrivere “La compresenza dei morti e dei viventi”. Durante questo percorso mi si presenta Padre P.Yo, che faceva cose che ritenevo abbastanza buffe, e fa una roba che mi ha subito fatto venire voglia d’ammazzarlo: remixa “L’orataria” e la mette sul suo demo senza chiedermi il permesso. Perciò io mi ritrovo con un inedito del mio nuovo disco sul demo di Padre P.Yo… Ovviamente gli ho detto di toglierla, ma quella è stata solo una delle tante inculate che ho preso a partire da lì. E niente, mi fa conoscere questa realtà che si chiamava The Lofthers (Gulag e Sgherl, ndBra), facciamo un pezzo con loro e da lì, con l’ingresso di Mortecattiva, nasceranno i Lolocaust, gruppo in grado di organizzare un concerto a Milano con due dei cinque componenti che mandano foto agli altri mentre stanno in altri locali a bere e divertirsi – e tu che sei sul palco. Questo per capirci sull’affidabilità… Comunque a suo modo fu una genialata, anche nel disastro, con noi che prendevamo tutto e tutti per il culo e a nostra volta venivamo presi per il culo.
B: è curioso che un disco come “La compresenza dei morti e dei viventi”, uscito appunto nella fase Lolocaust, non risenta particolarmente di ciò che in parallelo facevi in gruppo. E forse è ancora più sorprendente scoprire che, di fianco al sarcasmo e all’irriverenza, avessi temi così delicati e personali da affrontare.
CR: allora, anzitutto nei Lolocaust c’è un buco tra il demo iniziale e “Homocaust”. Nel 2010 i Lolocaust finiscono perché P.Yo se ne va per la prima volta; e se ne va portandosi via i master e i file aperti dei pezzi, tant’è che “Moccia music” esce facendo un cut and paste degli .mp3 dei provini. Poi a un certo punto s’è riaffacciato, ma la cosa era chiaramente precaria, nel senso che eravamo tutti troppo diversi: non poteva che finire male. E’ stata una cosa che ho fatto perché mi faceva ridere e perché volevo testare fino a dove si riusciva a essere pesanti senza essere delle merde – e non è una battaglia che ho vinto, sia chiaro. Tornando a “La compresenza…”, parte tutto dal fatto che avevo smesso di fare il rapper: ho ricominciato in un momento complicato, avevo tutta una serie di rodimenti di culo che si sono concretizzati in primis in “De Ddio” e lavoravo in un’agenzia di pubblicità dove per la prima volta mi misero davanti a un Mac, quindi avevo GarageBand, piccolo software col quale puoi programmare della musica. In più, chi fa pubblicità riceve regolarmente da Flippermusic e realtà simili dei temi non utilizzati e con tutti gli elementi del pattern diviso, strumenti, batterie e così via. Quelli erano i mezzi che avevo a portata di mano e per fare il Rap che volevo, testi intimisti e sfoghi, mi stavano bene. Avevo delle robe da dire e nel gruppo Punk riuscivo solo a buttarla sul sociale o a essere ermetico. Volevo ampliare il discorso, scavare un po’ di più; facevo queste basi al lavoro, tornavo a casa, mi mettevo a scrivere e alla fine mi sono ritrovato quasi con un disco pronto, per cui a quel punto ho detto finiamolo. Le strumentali, per quanto realizzate in questo modo per nulla convenzionale (o perfino troppo convenzionale), funzionavano, ho dovuto giusto chiedere una mano a Nerattini per “Elaborazione di un lutto”, perché per la scrittura avevo usato “All I Need” di Method Man nella versione di “Tical” e avevo bisogno di un beat che avesse quell’impronta lì: lui m’ha fatto la magia. Però sì, in effetti quello è stato un periodo durante il quale ero molto Jekyll e Hyde: quando ero coi Lolocaust stavo a giocà e quando ridiventavo Chef Ragoo ero molto legato all’analisi e al mio percorso personale.
B: in questo senso, nonostante trascorra un intero decennio, possiamo dire che tra “La compresenza…” e “Novecento” ci sia un legame molto stretto. E’ un po’ l’uno lo sviluppo dell’altro?
CR: da un certo punto di vista, “Novecento” è un punto d’arrivo in assoluto. Non so quanto potrei scavare oltre, anche perché non ho risolto i problemi che mi hanno portato a scrivere entrambi. Non so come se ne esca, da questa situazione, e non so neppure se se ne esca, spesso e volentieri – anzi, molte volte involentieri. Se non mi vengono in mente altri argomenti, per me potrebbe essere il capitolo conclusivo nel Rap. Non ricordo chi lo dicesse, ma sposo il concetto secondo il quale ciascuno tende a scrivere più volte la propria canzone, cercando sempre di migliorarla, di affinarla. Senza farlo di proposito, credo sia quella la linea che ho seguito. Aggiungo che, quando ho cominciato a lavorare con Ugly Shoes a “Novecento”, volevo fare il disco felice: ho fallito miseramente ma va bene così, perché vuol dire che questo era ciò che dovevo buttare fuori. E, nella tragicità del fatto che mi esca solo questo, sono soddisfattissimo. Volevo parlare di un amico che è scomparso e nel frattempo le persone da ricordare sono diventate quattro, perché purtroppo la gente muore o s’ammazza, quindi sul tema ho scritto più di quanto avessi programmato.
B: sappiamo che il disco è stato realizzato in un intervallo di tempo abbastanza lungo. In questo frangente, hai mai pensato di non riuscire a portarlo a termine?
CR: sì. Anche perché perfino ora ho difficoltà a parlare di certe cose, mi vengono le lacrime. Ad esempio l’idea di portare sul palco “L’uomo con le mani sulla porta d’uscita” è un’incognita, è una roba molto faticosa, personale: ho paura di non farcela, ecco. Ogni volta che s’è frapposto un problema tra me e la realizzazione del disco ne ho approfittato per lasciarlo perdere, dimenticarlo in un angolino per qualche mese. L’ultimo dilemma è stato l’artwork…
B: …davvero bello, tra l’altro.
CR: assolutamente. Ma avevo dei dubbi sul retro perché l’Art Nouveau è fitta, ha tanti dettagli, particolari, quindi ci voleva qualcosa che si staccasse dal fronte copertina di Diamond. Fino a quando non ho trovato quello slancio, quell’idea, e ho chiesto a Giacomo Bevilacqua di ritoccare una mia foto e tirarne fuori un disegno. E perfino in quel momento stavo per mollare; poi dovevo uscire con un’altra etichetta che sul progetto era assopita pure più di me… Fortuna che è arrivato Enrico Giannone di Time To Kill, che ha avuto un approccio molto damose da fa’.
B: dal punto di vista del sound, “Novecento” è quasi un disco a sé nel panorama dell’Hip-Hop italiano di oggi, né classico in senso stretto, né artificiosamente moderno. Tu come lo inquadri e che tipo di pubblico desideravi raggiungere, considerato anche il tono adulto dei temi trattati?
CR: guarda, questo è sempre stato un mio problema perché quando scrivo il pubblico non è un mio pensiero. E’ sbagliato, eh: uno che fa musica e cerca di farla bene dovrebbe avere un’idea anche sul suo pubblico, io però non ci riesco. Sto chiuso nei cazzi miei ed esce una canzone, di base è questo. Ribadisco: quando ho sentito i primi beat che mi ha dato Luca ho pensato che fossero molto strani, non classici, con degli accenti diversi sulle batterie un po’ spostate, dei campioni insoliti, e pensavo di poterne tirar fuori qualcosa di allegro, tipo tiramo su le mani e ballamo tutti quanti. Invece la loro vera essenza, che poi corrisponde al carattere di Ugly Shoes, è ombrosa: quando, nell’estate 2012, vado in Sardegna con questi beat e comincio a lavorarci, quello che ne viene fuori è anzitutto il novecento, qualsiasi cosa io scrivessi andava a scavare nel secolo scorso, fino quasi alla mia adolescenza. E mi sono sorpreso da solo, avevo tempo per incupirmi per i cazzi miei, bevevo, fumavo, mi svegliavo all’una per buttarmi in mare e poi scrivevo. Un loop di sicuro dissociante, che mi ha instradato su questo tipo di temi. Poi, quando ho capito che la parola chiave era quella, novecento, diciamo che tutto è venuto da sé e la scrittura è stata diretta, considerati i miei tempi che non sono affatto brevi.
B: a questo proposito, in “La compresenza…” eri anche alle macchine, qui hai lasciato tutto in mano a terzi. Perché non hai ripetuto l’esperimento?
CR: in quel caso avevo un’esigenza diversa e non pensavo di fare un disco quando ho cominciato a scrivere le prime robe, per “Novecento” invece mi era chiaro che qualcosa doveva uscire. “La compresenza…” mi ha rimesso sulla piazza, c’è una continuità, c’è un nome, per quanto piccolo, e sarebbe stupido se facessi pezzi per tenerli nell’hard disk. Di conseguenza, un conto era fare i beat in quel modo per un progetto che non sapevo dove sarebbe andato a finire, altro è lavorare a un disco sul quale delle persone avrebbero messo dei soldi. Un impegno diverso. Io non sono un produttore e perciò avevo bisogno di gente che faccia cose che non sono in grado di fare o che, se le faccio, vengono troppo dritte. Uno, non m’andava; due, non avevo tempo; e tre, tutto nasce una sera in cui io e Luca ci siamo trovati in una casa tutti mbriachi, perciò la sua è una presenza che c’è in origine. Poi devo dire che l’altra spinta importante arriva da “Strozzapreti alla romana”: scoprire che Simone, che pure se conosco da quando abbiamo quindici anni è per tutti patrimonio nazionale, mi voleva perché pensava fossi la persona giusta per fare quel pezzo lì con lui e Suarez, mi ha gratificato tanto. Mi sono sentito un vero rapper molto più di quando lo facevo con quella convinzione che intanto avevo perso e così ho capito che c’era bisogno di una certa professionalità, diciamo.
B: accennavamo prima alla densità tematica dell’album. Oltre a essere uno dei brani più originali della tracklist, grazie al taglio apportato da I Cani, “Le botte e le strade” è anche una fotografia della società in cui sei cresciuto, con chiari riferimenti all’antifascismo e alla realtà romana. Tra la Capitale dei tuoi ricordi e quella del 2021 trovi differenze importanti o grosso modo siamo ancora lì?
CR: guarda, è una Roma per forza di cose talmente diversa che non saprei neppure da dove cominciare. Ma in realtà è diversa la vita, pensa solo a quanto al tempo fosse difficile interfacciarsi con qualcuno che aveva la tua stessa passione, mentre oggi con un cellulare in tasca tagli tutta una serie di passaggi. Prima dovevi uscire di casa per parlare con le persone, non potevi chattare; e uscire di casa ti esponeva ai bulli, ai coatti, ai fasci, soprattutto se eri considerato uno strano. E forse è perché non sono un adolescente e vivo le cose in maniera molto disincantata, né sono in grado di immedesimarmi nei pischelli di adesso, però io ricordo ancora cosa significasse cercare quell’unico bar aperto la sera nel quartiere per farsi una birra dopo le dieci di sera, magari col rischio di incontrare facce che non volevi incontrare, dato che quello era il solo posto dove potevi andare, non ce n’erano cinquanta. Queste ristrettezze di occasioni facevano sì che accadessero le cose che poi ho raccontato – in maniera un po’ diversa – in “La mia scena”: io ero tutte le sere sotto la casa della ragazza con cui m’ero lasciato, a quindici anni, e a un certo punto noto due tizi un po’ capelloni che scrivono qualcosa su un palo. Aspetto che se ne vadano, mi alzo e vado a vedere: avevano fatto il logo dei Dead Kennedys! Per cui gli corro dietro, li chiamo, gli dico che anch’io sono un Punk e oggi siamo ancora amici, ci vediamo ogni capodanno, uno ha suonato il basso con me per cinque anni, l’altro ha disegnato le copertine dei primi demo dei miei gruppi. Al tempo andava così e la mia vita è fatta di incontri di questo tipo. Neffa l’ho conosciuto perché aveva un tatuaggio dei Negazione sulla gamba, gli chiedo come mai e lui mi fa sono Neffa, mi vuoi fare un applauso o mi vuoi sputare? Una risposta così su internet non esiste, non avrebbe senso. Per il resto, magari a Roma ci si spara di meno ma ci si mena tanto di più, c’è una violenza esagerata, esacerbante; di sicuro non è la città in cui sono cresciuto.
B: di ricordi, spesso dolorosi, se ne parla in realtà nella quasi totalità di “Novecento”. A quasi cinquant’anni, a prevalere è la nostalgia per quanto fatto finora o la paura per quanto ancora rimane da fare?
CR: cominciamo col dire che se per fare un altro disco mi occorrono altri dieci anni, allora lo considero a priori l’ultimo. Non mi ci vedo a sessant’anni a fare il Rap, farei ridere. Chiarito ciò, io ho una nostalgia micidiale verso il passato. Non è una roba da piagnone, da si stava meglio prima, ma certe cose che ho fatto, ovviamente, sono irripetibili. Il punto è che le prime volte sono troppo importanti, tutto il mio bagaglio di esperienze si è formato di mattone in mattone, oggi invece i mattoni al massimo t’arrivano sui denti. C’è minore soddisfazione in quello che creo giorno per giorno, mentre al tempo anche solo uscire di casa, incontrare una persona e conoscerla mi poteva far stare davvero bene. Rimpiango il non avere tempo ed energie per dedicarmi alle cose come facevo da pischello, questo sì. Diciamo che è affetto per un periodo della mia vita in cui ogni cosa nuova fatta, pur nel suo piccolo, era una conquista. Ma è una domanda un po’ a trabocchetto, perché credo che ognuno, da un certo punto di vista, rimpianga i vent’anni.
B: “La fine” è un altro brano che si ascolta con un po’ di groppo in gola. Depressione: la citi, ne parli, descrivi una condizione cui si guarda ancora con una sorta di imbarazzo, non sapendo mai bene come comportarsi con chi la vive nel suo quotidiano. Per te, è stato più semplice parlarne attraverso la musica o nella sfera privata?
CR: come ti sarai reso conto, nel parlare io tendo a chiudere tutto con la sdrammatizzazione, con la battutina. Ma nella musica questa cosa non mi viene. Non ho la capacità di farlo e, anzi, a volte mi succede di tirare dei bei destri allo stomaco. In primis al mio. Nello specifico, “La fine” è il pezzo che a un certo punto dice <<ho una fune, ho un masso, ho un fiume>>, parlo di suicidio in maniera perfino più diretta di “L’uomo con le mani sulla porta d’uscita”, che ha una voce narrante e quindi si mantiene a distanza dal protagonista. “La fine”, invece, dà tutta una serie di indizi per capire come termini la storia, che però è in sostanza un film; non a caso, nel pezzo successivo (“Tre passi nel delirio”, ndBra) mi riallaccio dicendo <<mi ostino a restare vivo in un presente che è Resident Evil>>.
B: c’è un assente in “Novecento”, il tuo anticlericalismo. Saresti andato off topic, trattando l’argomento, o la tua posizione in merito si è fatta più moderata?
CR: il punto è che “De Ddio” e “Strozzapreti…” ti mettono in una posizione particolare e ci si aspetta che tu faccia per forza a vita i bestemmioni. In questo disco, però, mi focalizzavo su altro. La Chiesa nella mia vita ha avuto poco impatto, l’ho frequentata per tre mesi perché mi piaceva una pischella, siamo andati in campeggio e la cosa è durata fino a che il prete non m’ha buttato via il pacchetto di sigarette. Fine. Quindi non è una roba che ho vissuto o che mi ha condizionato in qualche modo; la mia è una reazione nata quando il mio pensiero politico ha cominciato a formarsi in maniera meglio delineata. E poi per parlare di cose più intime e più profonde non puoi offendere una fetta delle persone che ti ascoltano e magari hanno una visione diversa dalla tua. L’anticlericalismo lì nasce e lì muore, io odio i preti ma non vado ad ammazzarli. Chi è ateo resta ateo, chi è credente resta credente: non credo che “Strozzapreti…” sposti qualcosa nelle convinzioni della gente. Né era il nostro obiettivo. In questo momento ho delle canzoni cui tengo molto e voglio condividere quelle con chi viene a sentirmi.
B: a proposito delle “Scimmiette”, toglici una curiosità sul ritornello. Nel riprendere “Shimmy Shimmy Ya” di Ol’ Dirty Bastard, che non conosceva il Bioparco ma aveva cognizione di un certo “Brooklyn Zoo”, hai elaborato uno di quei collegamenti cervellotici che piacciono tanto a noi appassionati di Hip-Hop o è tutto frutto del caso?
CR: sono incastri. A questa cosa del “Brooklyn Zoo” ci sono arrivato dopo, m’è venuto in automatico scrivere il ritornello così, suonava alla grande, fa ride ed è tutto qui. La verità è che quella delle scimmie è stata una roba davvero inattesa. Terminato “La compresenza…”, depresso fracico perché neppure questo disco mi avrebbe portato da qualche parte, vedo su un autobus una pubblicità dell’abbonamento annuale al Bioparco a trentacinque euro; ho pensato a un refuso e invece no, era vero. Mi abbono e, lavorando da casa, inizio a passare tanto tempo nel parco, lavoro da lì, leggo libri e c’è in particolare una scimmietta che mi si sedeva accanto su un gradino nella gabbia, col vetro in mezzo, e guardava quello che facevo fino ad addormentarsi. Poi cominciano a farmi le piroette, i giochi e via dicendo, perciò mi rendo conto che mi conoscevano: le chiamavo per nome e imparo a individuare tra i loro gesti delle reazioni affettuose al fatto che fossi lì. Un’interazione molto personale, se così si può chiamare.
B: “Novecento” è fuori in digitale e copia fisica per Time 2 Rap, neonata label romana che sabato 3 luglio presenterà il suo roster a Villa Ada. Ci racconti quest’ennesima avventura?
CR: per me è un’esperienza del tutto nuova, perché – fatta eccezione per la soundtrack di “Zora…” – ho sempre fatto tutto per i cazzi miei, senza il supporto di un addetto stampa né interviste programmate. Tant’è che non c’è tutto ‘sto Chef Ragoo sul web, se non consideriamo il coinvolgimento a “Nessuna speranza, nessuna paura” di Stefano Pistolini – che peraltro inizialmente doveva essere un documentario sul Rap di Roma condotto da me e il Piotta. E ti dirò che fa piacere, perché nel Punk questa cosa del buzz spesso può bastare, ma nel Rap no, è molto più complesso venir fuori e grazie al sostegno di Time 2 Rap ho l’occasione per fare di più. Ho delle spinte, non ho bisogno di stare dietro al mio prodotto h24 per vederlo muoversi. Quindi posso conservare le energie per fare quello che devo fare, dalle prove ai live, passando per le interviste.
B: chiudiamola in maniera tradizionale. Il disco è fuori, il primo live è in programma, la risposta di utenza e addetti ai lavori mi sembra sia stata positiva: che periodo è per Chef Ragoo?
CR: a prescindere dal fatto che è stato un periodo molto stressante per tutti, che ci ha piegato e a volte anche distrutto, è un momento cui sono arrivato proprio con le pezze al culo, gonfio e stravolto. Questa cosa di Time 2 Rap, inaspettata, per me è quindi una svolta estremamente positiva, mi ha dato voglia, energia, una passione che credevo non ci fosse più. Però ci sono arrivato con tanta fatica: è una buona ripartenza, spero di tenere duro anche in funzione del fatto che il disco mi piace e gli voglio bene.
B: c’è qualcosa che non ti ho chiesto e senti il bisogno di aggiungere?
CR: sì. Tornando alla domanda che mi hai fatto prima, ci terrei a specificare che, quando in “Scimmiette” dico <<Bioparco, Bioparco>>, in effetti sto alludendo a qualcosa…
Bra
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