Intervista a FFiume (23/09/2024)
Con Francesco, avevamo in parola quest’intervista da un po’ di tempo. In precedenza, infatti, c’era stato modo di parlare sia di “Underlife” che di “1993”, in un caso con Clas K. e nell’altro con l’Underlifers Group; mancava un tête-à-tête, una chiacchierata grazie alla quale poter isolare anche temi e domande non necessariamente di routine. Da questo punto di vista, come immaginavamo, FF non si è certo risparmiato – in realtà, quando eravamo alle battute conclusive ha detto di aver appena cominciato a riscaldarsi; chiudiamo allora l’introduzione e vi lasciamo rapidamente alle parole del Nostro, che rispondeva in video dalla Toscana con la sua voce bella e profonda.
Bra: dato che quest’intervista nasce in scia al progetto DubClub, giunto alla terza di sei uscite, direi di cominciare subito col racconto di quest’ennesima avventura tua e di StrettoBlaster con Vinilificio. Di cosa si tratta?
FFiume: DubClub è artigianato. E’ creare qualcosa di particolare e in maniera molto autentica, casalinga, con poche tracce, dando su supporto la possibilità di avere dei pezzi che trovi solo lì. E’ il risultato di un percorso creativo di più persone che si trovano sulla stessa lunghezza d’onda e perciò decidono di collaborare, amici e professionisti grazie ai quali viene a comporsi il progetto creativo StrettoBlaster. Riprendendo quello che dicevano i brasiliani sulle copertine dei dischi, DubClub è cultura, quindi è qualcosa che per noi ha un valore di gran lunga superiore a quanto poi viene corrisposto per il disco in sé. Siamo a metà del progetto e posso già anticiparti che la prossima uscita è per ottobre e sarà una roba di cui sono gasatissimo, poi entro la fine dell’anno dovremmo pubblicare le ultime due, ma c’è talmente tanto in cottura che potremmo scegliere come muoverci anche in corso d’opera…
B: il primo EP pubblicato è “Racconti notturni”, con FatFat Corfunk al microfono e produzioni firmate da te e Clas K., che omaggiate i Gang Starr in almeno un paio di casi – non credo casualmente…
FF: no, scelta voluta. In tutte le robe che facciamo deve esserci sempre un omaggio ai Gang Starr, gli originator di questa fissa siamo io e FatFat dal primo pezzo che abbiamo fatto assieme.
B: collaborazione storica, diciamo…
FF: con FatFat potremmo dire che la collabo sia iniziata già dai tempi di “#Oreeore”, senza mai interrompersi. “Racconti notturni” nasce in scia a “1993”, che festeggiava i trent’anni del rapporto tra il sottoscritto, un po’ di gente attorno a me e l’Hip-Hop; FatFat l’ha sentito, gli è piaciuto e l’ha voluto remixare, da lì, scherzando ma non troppo, gli abbiamo detto tipo basta farci rappare sulle tue basi, ora rappa tu sulle nostre – e l’ha fatto davvero. Gli abbiamo dato i beat e di quei pezzi registrati uno è appunto in esclusiva su vinile, sennò ti becchi solo la strumentale, è venuto fuori tutto molto spontaneamente tant’è che il titolo è un riferimento molto preciso al nostro modo di lavorare: io solitamente produco di notte, FatFat è riuscito a fare le sue cose nei ritagli di tempo, scrivendo e registrando sempre di notte, e Clas ha un tocco parecchio notturno. E’ una cosa piccola, che però per noi ha un gran valore.
B: il secondo titolo è “V.S.O.P. – very superior old pale” del pisano Rico Herrera, col quale avevi realizzato “Musica leggera” qualche anno fa…
FF: esatto. In parallelo all’EP con FatFat, stavo lavorando anche a quello con Karlino, e siccome da un annetto e mezzo sono rientrato in pianta stabile in Italia ho beccato Rico, altra amicizia che già c’era. Lui mi fa sai che ho dei pezzi Rap?, ragion per cui ho voluto subito sentirli: abbiamo cominciato a lavorarci ed è venuto fuori un EP horrorcore secondo me molto peculiare, perché Herrera racconta la vita di strada ma vista dall’altra parte del marciapiede. In Italia, come forse dappertutto, la tendenza è quella di raccontare la strada secondo il solito assioma americano dell’io vinco, tu perdi, parlando di soldi e via dicendo, cosa che se qualche anno fa poteva comunque avere un senso, una valenza di riscatto sociale, oggi si sostanzia in puro capitalismo. Lui si fa questo viaggio e racconta cosa vuol dire essere vittima di violenza, emarginati, avere gli impicci e non possedere i mezzi per cacciarsi fuori da lì… Tutto ciò da esperienze con persone che ha frequentato, giri di vita e visioni del suo stesso quartiere, spacca e non potevamo non metterlo su vinile.
B: intervistandolo, noi dicevamo di una figura sottoesposta all’interno dell’Hip-Hop italiano. Perciò ti chiedo: essere sottoesposti o, se preferisci, esposti solo a una determinata fetta di appassionati, è il modo migliore per sentirsi liberi di realizzare la musica che si vuole e non quella che vuole qualcun altro?
FF: no. Parti dal presupposto che realizzi la musica per te stesso, consapevole però che ci sia chi ha quella stessa sensibilità. Il punto è trovarsi. Io e Rico facciamo musica per la gente come noi, come te, poi è chiaro che vorremmo arrivare al maggior numero di persone possibile, sapendo che, se l’obiettivo è esclusivamente quello, devi seguire un certo tipo di percorso. Mi interessa farlo? Fino a un certo punto. Sono nella posizione di poter criticare chi lo fa? No. Chi lo fa, ha intenzione di prendersi quello; io voglio prendermi altro. Noi facciamo la musica che ci piace, tutto qua; ammesso e non concesso che decidessimo di fare altro, la verità è che non so neanche se ne saremmo capaci.
B: terzo in ordine di uscita, rilasciato meno di due settimane fa, è “Non è il disco che ti aspetti” del salentino Karlino Princip, su produzioni tue e con featuring di Pepe Nocciola. Per fare del buon Hip-Hop, le distanze sia anagrafiche che geografiche sono un ostacolo?
FF: allora, la distanza anagrafica non influisce di per sé su un progetto, quella geografica in certi casi sì. Il punto è che, se c’è un territorio comune, percorsi diversi ma simili, contigui, si può fare tutto. Karlino per me è il nipote dei maestri salentini, evoluto a Ragga, Hip-Hop e tutto quello con cui sono cresciuto anche io, quindi l’età non è un ostacolo. Sul non essere assieme contemporaneamente in studio penso solo che, in questo caso come in altri, sarebbe stato bello vederci dal vivo, non abbiamo potuto ma la catena di montaggio ha funzionato lo stesso: c’è il beat, ti senti la rima, questa ti piace e quella meno, lavoriamo, arrangiamo… I mezzi digitali ci hanno aiutato tanto e non è una novità, molta musica che ascoltiamo ogni giorno ha una bella componente di scambi digitali. Non a caso, l’idea del progetto è nata addirittura durante la pandemia, le basi c’erano quasi da subito e poi per vicissitudini varie di entrambi abbiamo freezato fino a riprendere le cose appena è stato possibile. Ed eccoci qui.
B: quanto segui o conosci la scena che Karlino e Pepe Nocciola (con Kiazza Mob, Float A Flow, Superfluido e Granda Farmerz, le realtà di cui sono parte) in questo momento rappresentano?
FF: alcune cose sicuramente sì, le seguo, altre sono più lontane dalla mia sensibilità. Non lo dico solo per una questione di età, ma ci sono progetti che non mi parlano, non mi dicono. Noi a vent’anni avevamo la pretesa e la presunzione di insegnarti, di raccontarti, di riscattarci, i presupposti di questa generazione sono più materialisti. Rispetto l’estro di chi trova nuovi modi di insultare la mamma di qualcun altro, però mi cago il cazzo… Discorso che vale anche per tanti americani, sia chiaro: sono tutti uguali, troppo uguali. Aggiungo: Pepe Nocciola è il miglior rhymer della sua generazione, un top liricista; Karlino è GZA, devi ascoltarlo tre volte prima di capire dove voglia arrivare, lo dice anche nei pezzi, è quella roba che skippi ma poi dopo riprendi, ti tira dentro, è il motivo per cui ho voluto collaborarci e abbiamo anche altro materiale da parte, si sappia. Aggiungi anche questo: grossi big up alla scena sabauda, mi sta facendo volare.
B: parliamo un po’ più in dettaglio di StrettoBlaster, che – come label – nasce in concomitanza alla pubblicazione di “Gli occhi”, realizzato nel 2004 con L-Mare. Quella che, se non erro, in origine era una crew, si è espansa in un progetto più articolato, che oggi come descriveresti?
FF: è un opificio creativo. E’ una macchina che genera dei profitti attraverso uno schema a piramide, il classico Ponzi scheme (ride – ndBra) grazie al quale riusciamo a fare le nostre produzioni e portiamo avanti quello che ci piace. Io sono il fondatore della crew, che nel riferimento allo Stretto richiama la nostra area di provenienza, perché in radio, nei primi anni novanta, venne fuori la gag che noi dovevamo portare il ghettoblaster e diventare lo strettoblaster, creando di fatto aggregazione tra Reggio, Messina e le crew sul territorio. Diffondere informazione e condividerla con amici e fratelli è diventato un po’ il mio modo di vivere e operare, StrettoBlaster è questo. Poi nel tempo si sono avvicendate più persone all’interno della crew e oggi con noi collaborano Antonio Solinas, Two Mave, quando può scrive Filippo Papetti, siamo un movimento di persone che la pensano in un certo modo e provano a raccontarti la loro, un laboratorio creativo con magazine, produzione di dischi, smazzo di stock e, aspetto che vedi meno, consulenza per le aziende. Anzi, ti do lo scoop: presto StrettoBlaster sarà anche in italiano!
B: ti devo da tempo una domanda. Commentando “Members only”, che avete pubblicato a nome The Folto Caruso Ensemble, come sai ho voluto spendere qualche riga in più per “Generazione X”, che secondo me è un brano fuori scala per l’odierno Hip-Hop italiano, una fotografia che in pochissimi saprebbero scattare. Premesso che c’è una bella differenza tra fare propaganda politica e parlare di temi politici, credo non ci siano dubbi sul fatto che la parola e quindi il Rap abbiano per definizione una dimensione politica, nel momento in cui muovono pensieri e posizioni: secondo te, con la normalizzazione del Rap quale linguaggio alla portata di tutti, questa potenzialità è stata in qualche modo disinnescata?
FF: intanto, la dimensione politica del Rap è una prerogativa squisitamente europea. Ce l’hanno venduto così e l’abbiamo assimilato di conseguenza, negli Stati Uniti c’è stata sì una parentesi più che altro sociopolitica, vedi Public Enemy e XClan, con l’afrocentrismo quale argomento portante, tuttavia il resto si sostanzia nel motto make money money, take money money. Dopodiché, il Rap è rimasto sé stesso, solo che è diventato strumento di altra gente, forse peggiorandosi. Se n’è capito il meccanismo ed è strumento mainstream, è stato svuotato del valore e del sapore originale, si è un po’…putrefatto. E’ diventato un meme, come tante altre cose. Ma non si è soltanto persa la valenza politica, fermo restando che non tutti siano in grado di esprimere delle idee con una connotazione politica e il rischio slogan è sempre dietro l’angolo, si è persa la stessa funzione comunicativa. E’ proprio questo il concetto che volevo far passare con “Generazione X”: noi volevamo esprimerci, comunicare delle cose, fatto che di per sé consisteva in un atto politico, tanto quanto scrivere il proprio nome su un muro. Oggi c’è tanta caricatura, macchietta. Rispetto all’Hip-Hop italiano come lo intendo io, “Generazione X” può stare benissimo dov’è, rispetto ad altro non esiste neppure, come tanta roba che si butta ogni giorno fuori. Una volta una persona mi ha detto questa cosa: voi nella musica dicevate, senza raccontare niente, questi non dicono un cazzo, ma raccontano un botto. Morale della favola: è proprio così, ma la storiella che oggi spesso i ragazzi raccontano è più o meno invariabilmente sempre la stessa. L’omologazione odierna è palpabile, ma se lo dici…sei vecchio!
B: non voglio lanciare il momento nostalgia, ma sempre nella stessa recensione ricordavo di averti ascoltato per la prima volta in “Ridi pagliaccio” di Pio e Kajar, che anzitutto indica il reciproco invecchiamento e in seconda battuta mi suggerisce un’altra domanda. All’epoca, incontrare l’Hip-Hop era quasi un miracolo, essendo un genere e un movimento relegati a una nicchia, oggi è più semplice ma si rischia di conoscerne una versione parecchio usa e getta: guardandoti attorno, se fossi un adolescente, pensi ti saresti innamorato ugualmente dell’Hip-Hop?
FF: con la mia testa di oggi, no fucking way. Se invece fossi un ragazzino, qualcosa mi avrebbe sicuramente intrippato, flippato, influenzato, o il lato brutto e sbrilluccicante che noi anziani tanto disprezziamo, o quanto di buono comunque si può trovare. Non lo so… Perché molto dipende anche dalle cose con cui cresci fin da bambino e se io a quindici anni scoprivo i Doors, provenienti da un’epoca già terminata, lo stesso discorso potrebbe valere per un adolescente che nel 2024 ascolta i Sangue Misto. Ma so che i figli delle mie amiche fanno i trapper e loro sono disperate…
B: Folto Cee, Rico Herrera, Clas K., Erma, Banana Spliff, Musteeno, Jay Vas… Qualcuno l’avevamo già citato e questa è solo una parte dell’elenco di artisti coi quali hai collaborato: alla base di un percorso lungo quanto il tuo, c’è anche la creazione di uno spazio comune, un collettivo di figure consapevole dei reciproci gusti e modi di lavorare?
FF: aiuta, ma non è essenziale. Ci sono cose che possono nascere dal vivo, cose che non nascono affatto, cose che si ripetono… E’ una questione di cultura, di affinità, di visioni conciliabili. Poi hai citato un sacco di artisti diversi: ogni collaborazione è una storia a sé, sono esperienze e progetti che magari sono andati avanti nel tempo, oppure spot. Prima di tutto, però, con ognuno c’è un legame umano, robe a caso non ne faccio. Nel frattempo, ti anticipo che presto mi vedrete anche in veste solista…
B: una domanda più tecnica sulla produzione. Sei un appassionato, collezioni vinili, hai un gusto che guarda chiaramente alla classicità, anche a livello di calore della pasta sonora: che macchine e software usi e come si svolge l’intero processo?
FF: di base, uso un set-up molto semplice. Si parte dall’ascolto e riascolto dei dischi, si viene folgorati da un elemento, una nota, qualcosa, lo si cattura e io lo faccio con un Akai MPC2500, si prende qualche altro suono in giro e crei dei loop, dei chop, quindi dai sfogo alle idee che hai in testa passando al sequencer. Io lavoro così, campionatore e giradischi, la mia roba è by design raw uncut Hip-Hop. Quello faccio. Ho anche un Boss SP-303, una tastiera Casio SA-1, uno Stylophone Beat che mi hanno appena regalato, aggiungi un paio di schede audio. Poi ovviamente utilizzo una DAW per post-produzione e missaggio, affido tutto ai miei ingegneri del suono Clas K. e Herrera e ci siamo.
B: parlando allo studioso forse anche un po’ secchione di Hip-Hop, nel periodo recente ti è capitato di ascoltare qualcosa in grado di lasciarti di stucco?
FF: di roba fatta molto bene e che in un certo senso è destinata a restare, mi viene in mente solo Rejjie Snow. Altro…non so, sai? E’ difficile. Forse rimarranno determinate cose di Kendrick Lamar, verranno ascoltate anche più avanti secondo me – e te lo dice uno che neppure è suo fan. Se poi allargo ancora lo sguardo, ti dirò che dal 2010 sono pochi i dischi che mi hanno fatto dire wow, questo bisogna prenderlo per forza e riascoltarlo, non saprei davvero fare un elenco. A parte che nell’immediato è semplice capire se si tratta di un gran disco, ma fare previsioni ulteriori è impossibile. E quindi… Mi auguro rimanga Little Simz, perché fa delle cose molto belle. E’ un momento in cui è difficile fare le differenza, unito al fatto che magari abbiamo superato l’età per essere facilmente impressionabili.
B: posso rassicurarti sul fatto che tu non sia il primo artista a dirmelo. Nonostante tutto, mi sembra di capire che quel disco o quel pezzo speciale, nell’Hip-Hop, continui a cercarlo…
FF: sempre! Io scandaglio sempre, anche perché è il presupposto fondante di StrettoBlaster, siamo costantemente alla ricerca della nostra dopa, solo che il 90% delle cose finisce che le cestiniamo. Neppure uso Spotify, per le mie ricerche vado soprattutto su Bandcamp: ascolto, scarico, seleziono, ma c’è un sacco di roba uguale e lo vedi anche dalle copertine, che spesso sono davvero brutte…
B: ecco, allora parliamo delle grafiche di StrettoBlaster. Accompagnando quasi sempre l’uscita con un’edizione fisica, curate molto quest’aspetto: che lavoro c’è dietro?
FF: alcune grafiche sono delle mie sortite, diciamo così, ma in generale l’art director di SB è Jacopo Tripodi, membro storico della crew. Per noi l’aspetto visual deve andare di pari passo con l’originalità dell’opera, si tratta di questo e cerchiamo di curare al massimo le nostre robe in ogni dettaglio, con tanto coinvolgimento da parte di ogni figura partecipante. L’ambizione, l’illusione, è quella di fare qualcosa che possa superare la tendenza allo scroll: la vedi e non passa inosservata. Ricorderai bene che, quando eravamo ragazzini, il disco era un oggetto attraverso il quale avevi un’idea completa della musica, del mood, ne era un’estensione; non vedo perché oggi non debba essere così. Anche quando si tratta solo di scegliere un font, un sistema di lettere, l’obiettivo è che trasmetta qualcosa.
B: non volevo chiederti anticipazioni sulle rimanenti uscite DubClub, perché sappiamo già che ne mancano tre e verranno rilasciate tra non molto; però prima hai parlato di un disco solista, quindi la curiosità ce la devi concedere…
FF: sì, te lo posso dire ufficialmente, sto lavorando a un disco tutto mio. Produrrò tutti i brani, al microfono avrò poche collaborazioni, un contingente ristretto della crew, e la novità è che ci saranno un paio di musicisti. Sarà una roba croccante, mi sto divertendo e in questo periodo mi sto anche addentrando di più nella rifinitura, nel missaggio, nelle fasi di ottimizzazione. E’ un bel viaggione. Poi nel mentre potrebbe anche venire fuori altra roba, c’è un EP in cui rappo soltanto, già scritto, una sorta di fratello gemello di “12 X 23” ma con un mio amico produttore che ora non ti dico, ho anche delle robe strumentali che sicuramente usciranno… Insomma, ne abbiamo.
B: prima di salutarci, c’è qualcosa che volevi dire ma che non ti ho chiesto?
FF: mah…sai che se dovessi intervistarmi non saprei cosa chiedermi? L’unica cosa che mi viene in mente è questa: è stato difficilissimo tornare in Italia! Da italiano, da expat, dopo dodici anni di vita all’estero, tra Stati Uniti, Francia, Londra e mezza Europa, ti posso dire che rientrare in Italia è stato uno shock culturale non indifferente. Non mi sono ancora abituato e penso che non mi abituerò, porterò avanti la mia crociata per il ritorno in auge del buonsenso, della tolleranza e dell’educazione, ma è una bella sfida… Non siamo messi bene.
Da qui in avanti, un po’ di politica e riflessioni personali che vi risparmiamo, sperando però che FFiume ottenga dei risultati concreti dalla sua condivisibilissima battaglia. Se ciò non accadesse, ci consoleremo con la musica: StrettoBlaster ne sta facendo uscire tanta, di qualità, ed è intenzionata a proseguire nella missione.
Bra
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