Intervista a Jangy Leeon (03/07/2024)

Ancor prima di ricevere la cartella stampa di “All eyes on beast”, avevamo già deciso fosse tempo di intervistare Jangy Leeon. Sulle nostre pagine è presente da tempo, sia in gruppo che in veste solista, lasciando percepire un’evoluzione cui non a caso abbiamo subito fatto cenno nella nostra prima domanda; dal canto suo, Gianluca ha risposto sempre con calma e precisione, confermando una grande consapevolezza di sé e dei passi fatti…

Bra: artisticamente, ti seguiamo dal tuo primo disco, “Lionel collection”, che usciva nel 2013, ma in realtà sei in attività da molto prima e nel 2006 fondavi la crew Mad Soul Legacy con – tra gli altri – Roksico e Prinz (oggi Silla DDR). Possiamo parlare di una vera e propria gavetta, un percorso di maturazione che, dalle prime rime assieme agli amici, ha portato a impegni via via più importanti: che effetto fa guardare a questa lunga trafila e, rispetto alle ambizioni che ti ponevi in partenza, quanto sei soddisfatto dei risultati raggiunti?
Jangy Leeon: banalmente, quando mi sono appassionato a questa cosa, da ragazzino, era tutto molto diverso, quindi anche le mie ambizioni erano diverse, così come magari lo erano solo cinque anni fa. Quando cominci, in genere lo fai per dimostrare di essere valido e di spaccare, pensare di farne una sorta di lavoro è qualcosa che neppure ti sembra possibile: la prospettiva è quella di essere una testa Hip-Hop, di poter far parte di questa Cultura. Lo dico anche perché ho cominciato dal writing e sono passato al Rap grazie a Truman Simbio, con una grande attenzione per tutto ciò che ruotava attorno al movimento, diciamo a 360°. E’ un percorso lunghissimo, che mi ha permesso di essere la persona che sono oggi; a questo sviluppo ho dedicato tante energie, c’è la passione ma ci sono anche i sacrifici, sei obbligato a prendere delle scelte, a volte a fare delle rinunce, perciò se mi guardo indietro è vero che non sono diventato milionario con la musica, ma sono contento della crescita creativa e artistica. Ne parlavo con Weirdo tempo fa: se quindici anni fa mi avessero detto che avrei fatto parte di un disco degli Onyx, non ci avrei mai creduto, quindi è tutto relativo e certe soddisfazioni è anche difficile spiegarle a parole.

B: sei cresciuto nel quartiere Ripamonti, in una Milano che – piaccia o meno – diventava il centro nevralgico del Rap italiano grazie al successo di Club Dogo e Mondo Marcio, come a realtà che si davano da fare più nell’underground (penso a Bassi Maestro, Microspasmi, La Crème e via dicendo). Quanto ha influito quel fermento sul tuo cammino?
JL: da bambino vivevo a Noverasco, che è in fondo a Via Ripamonti, a Milano sud, e poi ho sempre bazzicato quelle zone. Inevitabilmente, quella parte di Rap italiano mi ha influenzato tantissimo, specie durante l’adolescenza, periodo nel quale magari ero molto attento anche alle cose che uscivano qui, perché di base ho sempre seguito più la roba americana. Ma forse anche prima di La Crème e Club Dogo, con Sano Business, Basley Click, Kaos e tutta la gente che faceva Rap in una certa maniera, stilisticamente li ritengo dei maestri: ero al liceo artistico e i dischi di quel periodo lì me li sono pompati di brutto. Quando poi sono arrivati i Dogo, in realtà c’è stata una rottura totale, “Mi fist” ha cambiato le regole del gioco e l’imprinting è stato forte, nei contenuti come nel modo di rappare, nelle punchline… Penso anche, però, che raggiunti determinati livelli sia diventato difficile fare di più, incrementare la diffusione dell’Hip-Hop in Italia come magari succede in Francia o in Germania: abbiamo una cultura troppo popolare, che non si fa penetrare, che non spinge a cercare ma uniforma, forse manca quel melting pot sociale che è connesso direttamente all’Hip-Hop.

B: magari non sei d’accordo, ma a nostro avviso è con “L’era della bestia” che hai trovato la tua dimensione più congeniale, una formula riconoscibile, identitaria, a partire dai suoni, che mettono in evidenza un gusto molto marcato, fino a una dimensione tematica che privilegia l’intrattenimento. Quanto è importante – e quanto è difficile – avere una propria originalità all’interno di una scena che tende spesso a procedere per emulazione?
JL: guarda, è assolutamente corretto e ti ringrazio per aver colto un passaggio cruciale, un punto che, anche per merito di Weirdo che mi ha seguito tanto nella direzione artistica, per me segna una crescita, un salto sia personale che identitario. Con “L’era della bestia” la mia musica ha cominciato a rispecchiare in pieno i miei gusti, tanto quanto mentalità e approccio: caratterizzarsi è necessario, a maggior ragione se sei un piccolo artista, è un po’ come trovare te stesso, esprimersi al meglio e senza limiti. Io, nel mio piccolo, provo a farlo sempre e se si riconosce un timbro, un’originalità, allora la strada è quella giusta.

B: un’altra caratteristica del tuo stile è il riferimento esplicito all’Hip-Hop degli Stati Uniti, in particolare a quello di matrice ispanica, quindi Cypress Hill, Big Pun, The Beatnuts e così via – era il fulcro di “Eldorado”, realizzato con Weirdo. In passato hai ospitato il canadese Merkules, sei come accennavi in “World Take Over” degli Onyx e, venendo a “All eyes on beast”, coinvolgi Steelyone e Chubs, entrambi di scuola newyorkese: da quale esigenza nascono queste interazioni e in che modo influenzano il tuo approccio al Rap?
JL: penso nascano anzitutto dall’esigenza di riuscire ad avere un confronto con persone che vivono questa roba in una maniera che noi italiani possiamo capire solo di riflesso. E’ da lì che arriva tutto, è lì lo stampo originario e andare alla ricerca delle radici per me è stato proprio un bisogno, confrontarsi con artisti emersi da quel mondo da cui è nato l’Hip-Hop, qualitativamente più ricco e vario, è stata un’esperienza unica. Quando sono stato a New York ho beccato artisti enormi e il feeling è stato incredibile, l’ambiente ha un’energia pazzesca. Il Rap americano era ed è ancora oggi la mia prima influenza, quand’ero piccolo e cominciavo ad ascoltare ‘sta roba erano tutti degli OG’s di trent’anni, per qualche ragione quel mondo, quella mentalità, mi ha sempre gasato, capire da dove arrivavano e perché raccontavano determinate storie, salvando tra l’altro un sacco di ragazzini che non sanno cosa fare della propria vita, mi ha permesso di inquadrare meglio questa mia passione.

B: “Miscela”, rilasciato in video lo scorso ottobre, è il primo singolo estratto da “All eyes…”, facendo intuire tempistiche di lavoro abbastanza lunghe. Qual è l’idea da cui siete partiti e come si è svolto poi in concreto l’intero processo?
JL: devo dire che c’hai beccato in pieno, perché lavoro a ‘sto progetto da circa tre anni, cioè dall’uscita della desert edition di “Full moon confusion”. Il disco nasce semplicemente dalla collaborazione di lunga data che mi lega a Jack, dalla condivisione degli spazi del Caveau Studios e da un confronto quasi quotidiano: ci sembrava il momento di chiudere il cerchio. Personalmente, c’ho messo tanto e non è stato semplice trovare il bandolo della matassa. Lui produce molto, fa dei beat fighissimi, e io a mia volta ho scritto tanto, poi ho cercato di estrarre il meglio con l’obiettivo di rappresentare quel processo di crescita di cui dicevamo. E’ stata una sfida con me stesso, sviluppata a partire dalla direzione data ai suoni e con in testa un certo tipo di uscite dei primi duemila, in particolare quei mixtape con tanti pezzi dentro e una ricerca anzitutto stilistica.

B: è curioso questo tuo alternare album realizzati con un solo produttore per volta, ricordo di nuovo Weirdo o Wego FTS nei remix di “Mad beast”, e titoli che invece ne contano una carrellata, come appunto in “Full moon confusion”. Di base, come spiegavi, con Jack The Smoker c’è un’intesa già consolidata; a proposito del sound scelto, ti sei affidato alla sua esperienza o hai fornito delle indicazioni precise, delle linee guida? E i brani sono stati scritti sulle strumentali che avete utilizzato?
JL: diciamo che nel tempo mi sono abituato a scrivere direttamente sulle strumentali, poi è chiaro che magari delle idee ti vengono in mente anche quando non hai la base sotto e le tieni da parte. Preferisco però avere già delle vibes come riferimento, mi aiuta a trovare la struttura del pezzo. In “All eyes on beast” siamo proprio andati di brano in brano, abbiamo selezionato dei beat che funzionassero bene assieme, abbiamo trovato una direzione, un mood, e poi si è proseguito da lì. Ho fatto anche delle cose che non avevo mai fatto prima, su dei beat – per capirci – un po’ alla Busta Rhymes, ripercorrendo un periodo di cui sono fan ma che nei miei dischi precedenti forse veniva citato meno. Abbiamo spaziato tra east e west, senza distinzioni, riproponendo in chiave moderna qualcosa che potesse rappresentare una parte dei dischi con cui sono cresciuto.

B: in controtendenza, rispetto agli standard attuali, c’è la dimensione di una tracklist che conta diciassette brani per oltre cinquanta minuti di durata. Era nelle intenzioni, è il frutto spontaneo dell’intesa venuta a crearsi in studio, è correlato ai tanti featuring (siamo attorno alla ventina) o di tutto un po’?
JL: sai cosa? A me piacciono i dischi i lunghi… (ride – ndBra) So che oggi non si fa e sono cascato anch’io nella logica del faccio la cosa breve, però stavolta mi sono proprio detto a me piacciono i dischi grossi, se uno ha voglia se l’ascolta, altrimenti si sente i pezzi che preferisce. Ho bisogno di fare le cose come sento di doverle fare, come mi piacciono, non è certo un problema andare in senso contrario alle tendenze, alle regole non scritte del mercato che, secondo me, nell’underground valgono pure fino a un certo punto. Volevo dare un’impronta anche nel formato, faccio un disco più lungo e ci metto dentro tante collaborazioni, sempre perché il riferimento è dato da quei mixtape su nastro con due lati belli pieni e un sacco di gente al microfono.

B: scendendo un po’ più nel dettaglio, l’anima di “All eyes on beast” è anzitutto muscolare – tracce come “Karnak”, “Goldrake”, “Metronomo”, “Zucchero”, “Meglio di me”… A noi è capitato spesso di dire che, se fatto bene, il Rap non ha bisogno di muovere pensieri e concetti alti, profondi; nelle tue aspettative, al netto dei singoli brani più introspettivi, cosa speri venga colto e assimilato durante l’ascolto?
JL: condivido tutto… Abbiamo realizzato tanto materiale e trovato un filone evitando di fare le canzoni, ovvero quella roba a tema che in “L’era della bestia” e “Full moon confusion” magari c’era. Volevamo fare il Rap, volevamo i banger, volevamo un disco che impattasse; qualcosa di più riflessivo c’è, “Chania”, “Mulholland Drive”, “Zaffiro”, però l’attitudine e il concept non ne risentono. Doveva arrivare così, dritto e senza troppe pretese. “All eyes on beast” rispecchia in pieno quello che io e Jack ci eravamo proposti di fare.

B: il disco è fuori in formato fisico e digitale da neppure una settimana, troppo poco per chiederti come stia andando; vorremo però sapere se è in programma un tour e, considerata anche la ricca dotazione di featuring, che tipo di show state preparando per i live.
JL: per il periodo estivo sono in ballo almeno un paio di date, però non abbiamo ancora chiuso nulla e quindi di ufficiale non c’è niente. Siamo impegnati più su autunno e inverno, ovviamente faremo una presentazione a Milano e l’idea è quella di invitare gli ospiti che si trovano da queste parti, magari replicando a seconda di dove suoneremo. Proprio perché i featuring sono tanti, di volta in volta mi piacerebbe averne sul palco almeno una parte e al momento stiamo riflettendo su questo, vogliamo dare valore alla quantità di lavoro che c’è dietro.

B: quando pubblichi un disco, come in questi giorni, qual è il tuo stato d’animo? Sei in ansia per le reazioni, ti senti libero da un impegno che ti ha tenuto occupato a lungo, sei un perfezionista e quindi vorresti continuare a correggere e limare cose…
JL: ogni volta è un po’ diverso, ma in questo caso, dato il processo abbastanza lungo, è stato tutto molto liberatorio. Quando cominci un disco, non sai mai cosa ti aspetti alla fine; quello che ti manda più in sbatti è il risultato, perciò i feedback non lasciano indifferenti, hai una tua percezione delle tracce e ti chiedi se sia la stessa degli ascoltatori, se piacciono o meno, se interessano… E’ inevitabile, fai musica per farla ascoltare anche agli altri. Devo dire che in genere ho riscontrato buone risposte, variano gli streaming ma quello è un campionato che non m’interessa, non sono mai mancate delle belle sorprese, anche inaspettate, e posso dire di essere soddisfatto delle risposte ricevute. Anche “All eyes on beast”, che è uscito da poco, sta raccogliendo ottime reazioni.

B: all’inizio della nostra chiacchierata abbiamo citato il collettivo di cui fai parte, Mad Soul Legacy; dopo “People-Love-Roots”, uscito dieci anni fa, non avete mai pensato a un vero e proprio ritorno in gruppo?
JL: sì. Dopo “People-Love-Roots” abbiamo pubblicato qualche brano in gruppo, ma siamo stati assorbiti più dalle nostre singole cose, però ti confermo che ci stiamo beccando, la formazione è stata un po’ ricomposta e abbiamo in progetto di realizzare nuovo materiale. Penso ognuno di noi sia cresciuto, nel frattempo, come collettivo il peso specifico è tanto e possiamo darci una mano reciprocamente, unire i nostri background e rimetterci al lavoro. Siamo nel mood giusto per tornare a collaborare e sono sicuro ne verranno fuori delle robe fighe.

B: vuoi aggiungere qualcosa che ci tenevi a dire ma che non ti ho chiesto?
JL: non saprei… Abbiamo chiacchierato tanto e ho parlato del disco, perciò sono felice così e ti ringrazio per l’intervista.
B: grazie a te!

Interrompiamo il collegamento via Zoom quando è quasi sera, Gianluca era a pochi metri dallo studio che condivide con Jack The Smoker, a dimostrazione di un impegno che, come è emerso spesso dallo scambio di domanda e risposta, richiede costanza e dedizione. Tra una barra più cruda, qualche riferimento a Milano e delle immagini parecchio storte, “All eyes on beast” racconta questo.