Intervista a Toni Zeno (19/06/2024)

Solitamente, un artista rilascia interviste in concomitanza alla pubblicazione di un nuovo disco, per promuoverlo o condividere dettagli, chiavi di lettura, curiosità; Toni Zeno non ha ancora fornito elementi sul suo prossimo progetto, eppure nell’ambiente il suo nome sta risuonando con una certa insistenza, forse anche grazie a qualche collaborazione che ha sollecitato le attenzioni di chi è poco avvezzo a scavare nelle proposte più underground. Abbiamo pensato di avviare la nostra chiacchierata con lui proprio da lì…

Bra: cominciamo dalla fine. Nelle scorse settimane è uscito “Dove mangiano i cuochi” di Zonta e Fid Mella, cui partecipi col brano “Poche mele” che sembra abbia riscosso un alto gradimento; artisticamente parlando, che momento è questo per te e da cos’è nata una convocazione così importante?
Toni Zeno: intanto, ci tengo a precisare che è un onore immenso essere sul loro disco, sia a livello umano che da appassionato di Hip-Hop; venendo proprio da quel background, posso dire che neppure nei migliori dei miei sogni avrei mai immaginato qualcosa del genere. Ho conosciuto Mella grazie ad Aleaka durante la lavorazione di “Rito di passaggio”, ne è nata una bella connessione e, prima di intavolare delle idee, abbiamo fatto varie demo, poi quando mi ha detto del disco io non immaginavo di essere coinvolto, gli ho detto risentiamoci quando vuoi e invece lui mi ha subito chiarito che mi voleva dentro: è stato un autentico colpo! Ho lavorato alla traccia per una ventina di giorni, un flash enorme, e sono felice che alla fine sia piaciuta. Rispetto al momento, la verità è che la mia vita non gira attorno al Rap, ho i miei impegni, vivo in un contesto nel quale l’arte e lo spettacolo non hanno particolare spazio, lavoro da quando sono un ragazzino e credo che le cose non accadano per caso, sono figlie di un impegno e un processo che rappresentano una parte del nostro quotidiano. Se non faccio schifo, forse è perché ho con me un certo bagaglio di vita, di conseguenza sono abituato a rapportarmi con cose vere, che non sono legate al Rap, una partita che guardo ancora da fuori. Vivo un’altra realtà e tutto ciò che è arrivato in questi anni è una cosa pazzesca di per sé.

B: sei un classe ‘95, attivo da diversi anni. Del collettivo Rina Niura, di cui fai ancora parte, sappiamo poco, non essendoci in giro suoi lavori ufficiali; raccontaci di quando e come hai cominciato a fare Rap e di questa prima parte del tuo percorso.
TZ: non esistono lavori a nome Rina Niura perché il collettivo nasce col presupposto di riunire i nostri singoli viaggi, tant’è che siamo un po’ sparpagliati e ognuno ha le sue cose, il discorso è quello che ti facevo prima delle vite parallele rispetto al Rap. Volevamo fare le nostre robe e proporre un tipo di suono che non fosse assimilabile ad altro, progetto che portiamo ancora avanti con idee oltremodo futuristiche; usciranno cose già quest’anno e i ragazzi sono molto carichi. Personalmente, mi avvicino all’Hip-Hop grazie a un writer delle mie parti, si conoscevano le nostre mamme, abbiamo avuto modo di stringere e legare durante il tempo libero, anche perché io ero davvero piccolo, neppure dieci anni, e la cosa si è rivelata un vero e proprio shock, ero in perenne fase meditativa ad ascoltare questa roba. Comincio invece a rappare intorno ai diciassette anni, scrivevo già da un po’ quando uno dei soci per così dire anziani di Rina Niura, Emarai, mi ha proposto di fare un pezzo assieme, si chiamava “Fin dalla nascita” e forse su YouTube c’è ancora, non ne ho idea; quella è stata l’iniziazione, diciamo, quindi ho continuato assieme ai miei compagni di crew, abbiamo prodotto tanta musica mai uscita, facevamo le nostre cazzate in giro, principalmente per noi. Poi, nel pieno della pandemia, entro in fissa per Griselda, arrivo a quel sottobosco del sottobosco, la gemma mixata malissimo, grezza, e scopro che un produttore italiano, Il Torsolo, aveva quei suoni cui mi stavo appassionando: ascolto a ruota i suoi beat, su uno di questi registro “Azimut” – che avevo scritto in quei giorni su un’altra strumentale – e gli spedisco il risultato; dopo due giorni di silenzio mi stavo già arrendendo, invece mi risponde, gasato quanto me, e da lì questa cosa è cresciuta, fino a incrociare la strada di Make Rap Great Again.

B: data l’anagrafica, ci si sarebbe aspettato un approccio più marcatamente moderno – in realtà, le uscite con Aleaka hanno comunque un taglio abbastanza fresco. Con quali dischi sei cresciuto?
TZ: domandona… Come ti dicevo, l’Hip-Hop mi ha travolto in pieno e infatti sono stato un divora CD. In assoluto, il primo a spaccarmi la testa è stato “Tical” di Method Man…
B: …un inizio mica male.
TZ: direi di no… All’epoca usciva Groove e c’erano le compilation in allegato, un altro che mi ha fatto impazzire è stato Ol’ Dirty Bastard, lui completamente dissestato rispetto agli altri; la scuola di Alchemist, c’erano già i primi “Rapper’s Best Friend”; nel frattempo, però, approfondisco la conoscenza del Rap italiano e quella è stata la matrice da cui partire. Kaos, il Colle, Marracash, fino a Lou X e tutte quelle figure che hanno avuto una struggle molto marcata. Ecco, i rapper che hanno sempre cercato di trovare una scappatoia al delirio delle cose della vita per costruirsi un posto e stare in pace sono quelli che ho sentito presto più vicini.

B: credo in molti ti abbiano conosciuto attraverso “Pray for Italy”, che segnava il tuo ingresso in Make Rap Great Again. Entrare in un giro più grande, al fianco di figure che avevano già maturato una certa esperienza, che impatto ha avuto su di te?
TZ: non so… L’underground è un ambiente che non ti dà la percezione di veri salti di qualità, in genere continui a fare quello che facevi aspettando che la gente possa appassionarsi alle tue cose e così via. Non avendo in partenza alcun tipo di aspettativa, la soddisfazione è stata più che altro personale, quando infatti i ragazzi mi hanno chiamato ero talmente eccitato che per il pezzo ho scritto una quarantina di barre, sforando – poi non hanno tagliato niente e lì semmai ho capito meglio che approccio avevano. Non ho avuto da loro nessun tipo di pressione, ho avuto l’occasione di mettermi in mostra, di dimostrare che ero in grado di fare delle cose, e mi sono semplicemente divertito a farle. Poi è stato un viaggio, perché io stavo ascoltando appunto quella roba e loro canalizzavano una wave ben precisa, a partire dalle uscite più vecchie di AdriaCosta e Blo/B, avere una sorta di approvazione da persone che, senza che lo sappiano, ti forgiano musicalmente, è stato un incastro clamoroso. Se ci penso, è tra le cose più incredibili che mi sia successa, fare musica con quelle che per me sono state delle guide è un’esperienza unica, che neppure immaginavo di poter vivere.

B: un paio d’anni più tardi realizzi “Luchino Visconti” con Gionni Gioielli, che ci ha parlato di una lavorazione lunga, articolata…
TZ: secondo me i dischi si fanno col sangue, quindi ritengo impossibile siano il frutto di un ambiente di assoluta tranquillità. La musica è figlia di un processo e, anche quando ho le tracce pronte, ho la necessità di riascoltare tutto, di meditarci sopra, di metterne in discussione il risultato. Per “Luchino Visconti” ero in un periodo di puro delirio esistenziale, tornavo da Milano, dove avevo vissuto nei due anni precedenti, ero disorientato in termini di lavoro e non avevo neppure un posto vero e proprio dove registrare; è stato tutto molto hardcore, non per modo di dire: “Gruppo di famiglia in un interno” è stata registrata in una Lancia Y! Suona come deve perché Gioielli ha un tocco magico, ma la situazione era assurda. Come spesso mi succede, stavo lavorando a tante robe – perché è questo il mio metodo – e intanto ricevevo i vari beat per l’album, di fatto la maggior parte dei brani nascevano su altre strumentali e sono stati modificati in seguito, lui per fortuna aveva le idee chiarissime sulle sonorità e ha riunito tutto, nel frattempo io cambiavo più volte casa, ero in giro, scrivevo, non sapevo dove e come registrare… Gioielli è stato un autentico santo.
B: in generale, qual è il tuo processo creativo e in che modo ti coordini con i produttori che ti affiancano?
TZ: di base, cerco di affidarmi a un solo produttore per progetto, in primis perché mi piace creare un suono che sia coerente, omogeneo. A prescindere dal numero di tracce, la maggior parte del processo creativo viene innescata dai beat, scrivo a partire dall’ispirazione che mi dà la roba che sento. E non è una questione di sound, ma di attitudine comunicata dalla musica per farmi dire determinate cose. In questo momento, ad esempio, sto ascoltando tantissima roba e l’obiettivo è trovare di volta in volta delle sonorità specifiche, che rispecchino quella precisa cosa che sto cercando. Sia benedetto ogni produttore con cui sto lavorando e che ha la pazienza di starmi dietro…

B: se, coerentemente ai dettami MxRxGxA, “Luchino…” dava voce al tuo lato più muscolare, “Solve et coagula” e “Rito di passaggio”, entrambi appunto con Aleaka, attingono anche da quello spirituale, elemento molto presente nella tua musica. La Sicilia ha una forte componente mistica, con ramificazioni più esoteriche: la tua visione religiosa è stata determinata dal contesto in cui sei cresciuto o è il frutto di una fase di studio e approfondimento personale?
TZ: penso sia un mix tra le due cose. Cresco in un contesto pregno di cristianità, soprattutto da parte delle mie nonne che in casa esprimevano la loro fede a livelli incredibili. Il retaggio quindi è quello, poi crescendo mi sono interessato ai testi sacri, non solo di origine cristiana; l’elemento che più mi ha colpito è il messaggio, non sono cattolico ma ho trovato particolarmente importante la figura di Cristo, il dato storico, gli avvenimenti e via dicendo non mi interessano, è il senso delle parole. La lettura di determinati testi può servire in momenti particolari della nostra vita, lo studio c’è ma non si tratta di essere lì a sottolineare ogni riga con la matita: per me è come un manuale d’istruzioni per cercare di comprendere quello che ci viene messo davanti. Non è semplice, molti non lo capiscono, ma è tutto qui.

B: nell’EP “Porte strette”, che riuniva tracce pubblicate separatamente, ti misuri anche alle macchine. Ti rivedremo in veste di beatmaker e, in generale, con quali strumenti produci?
TZ: in realtà, produco da prima di cominciare a rappare e da ragazzo suonavo la chitarra. Però si è sempre trattato più che altro di un mio sfogo, l’obiettivo non è mai stato quello di fare i beat per me o per altri; capita che a volte mi esca quella roba incredibile e allora la tengo come base d’ispirazione per scrivere, ma nel 90% dei casi finisce che registro su altro. “Porte strette” è stata letteralmente una roba insperata, anche in termini di riscontro: volevo che quei freestyle, nati per Instagram, non rimanessero solo lì, quindi li ho caricati su Spotify, gli ho dato un titolo – quello del brano che a me piaceva di più – che potesse offrire un link, una chiave, e nel lanciare il progetto mi sono reso conto di aver fatto qualcosa di diverso dalle altre mie cose e anche da quello che avevo in testa, con dei connotati più grossi. Un EP breve, che per qualche ragione è arrivato bene e non è stato percepito come un disco di sole strofe. Posso confermarti, comunque, che mi ritroverete di nuovo alle macchine molto presto: mi piace stare sulle robe prodotte da altri, sperimentare, però non ho mai smesso di realizzare le mie; ho una Korg a 49 tasti con cui mi faccio i MIDI, mentre per le batterie uso Logic o Fruity Loops, poi se ho tempo mi piace anche rispolverare il mio MPC per tagliare i campioni e metterci sotto quei break belli grassi – ma è un regalo che riesco a concedermi raramente.

B: veniamo ai fatti più recenti. Da qualche mese sei in Think Fast Records, che nell’anno in corso ha fatto uscire Blo/B, Garelli e Armani Doc; nel secondo semestre sarà il tuo turno e, nel caso la risposta sia affermativa, cosa puoi cominciare a raccontarci in proposito?
TZ: allora, sono parte della famiglia Think Fast per questa stagione e in Armani e Garelli ho scoperto due veri fratelli. Abbiamo trovato delle affinità molto importanti ed è tutto comunque nato da un seme di Make Rap Great Again, perciò quando mi è stato proposto di fare qualcosa assieme non ho avuto bisogno di pensarci sopra. Allo stato attuale, ovviamente, non sono vincolato solo alla loro realtà e comunque, per indole, non amo lavorare con le esclusive per i motivi che ti spiegavo prima, preferisco spaziare e trovare sempre nuove ispirazioni, è la mia visione delle cose e i ragazzi lo sanno. Anzi, non avere l’aspettativa di dover fare le cose né per i numeri, né per obblighi, ci mette nelle condizioni di farle belle spacchiuse: non dovendo vivere di musica, per me la regola è questa. Cosa posso dire di più… Posso dire che sto lavorando, che non ho rotto le scatole solo a Garelli e che devo finire di registrare delle robe che saranno pronte abbastanza presto. Questo in breve.

B: assieme agli artisti che ci è capitato di nominare tra una domanda e l’altra e a quelli coi quali hai spesso condiviso delle collaborazioni, tu sei parte di quella ventata di novità che ha un po’ riscritto le regole dell’underground italiano. Pensi che quell’energia sia ancora in circolo e che addirittura possa crescere?
TZ: assolutamente sì! Se prendiamo la stessa Make Rap Great Again, alcune idee si sono semplicemente evolute e ora ognuno sta cercando di portare qualcosa di proprio in questo filone, senza compromessi di alcun tipo. E’ tutto legato al mettere la bellezza, l’arte, nei propri lavori, quando la prerogativa è questa, quando al centro c’è la voglia di esprimersi, non di fissare degli obiettivi fasulli, si costruiscono cose rilevanti. L’energia è in circolo e nelle prossime settimane ne usciranno davvero di belle, credimi. Il potenziale è tanto e nessuno sta lavorando per la fettina o per le briciole della torta.

B: tornando a “Dove mangiano i cuochi”, quando ne hai parlato sui social hai mostrato la tua copia di “E poi, all’improvviso, impazzire” di Ghemon & The Love 4tet, indicandolo tra le ragioni che ti hanno spinto a mettere la penna sul foglio. Ampliando il concetto, per stile, tecnica e scrittura, verso quali figure – nell’elenco potenzialmente sconfinato di rapper che hai ascoltato e studiato – avverti una maggiore affinità?
TZ: stile, tecnica e scrittura non so, lato esistenziale c’è con Marracash e Kaos. Sono due figure magari diverse, con le quali ho però sentito una correlazione umana molto forte, quasi le conoscessi da una vita, mi hanno forgiato con la loro musica e non è un modo di dire. Poi, anche se canalizziamo le cose in maniera diversa, ho avuto modo di sperimentare una certa affinità con Rkomi, mi è capitato di incrociarlo a Milano e per alcuni aspetti l’ho sentito così vicino da chiedermi com’è possibile che pensi le mie stesse cose? Non a livello di rime, ma alcuni testi li ho percepiti molto intimamente. Non posso non ricordare Micromala, perché vengono dalla costa e parlano di costa secondo modalità che ho sempre trovato a me congeniali; Nex Cassel è il re, a partire dalla concezione delle barre, cioè attitudine, fotta, situazioni e motivazioni: coi miei soci avevamo sempre i “Tristemente noto” in auto, rischiando di mandare in fiamme lo stereo. In generale, ho colto delle prospettive da tanti artisti e potrei ancora citare Lou X, dico sempre che per me è una forma di evangelizzazione ed è chiaro che lego quest’aspetto soprattutto agli anni in cui ero un ragazzino e quasi mi nutrivo di tante cose che ascoltavo.

B: parliamo di live. Ti abbiamo visto un anno fa alla data romana del tour Make Rap Great Again e sul palco sei un esagitato… (ride – ndBra) Scherzi a parte, quanto sei a tuo agio con un pubblico di fronte e come ti prepari alle serate dal vivo?
TZ: è complicato… Sul palco sono un esagitato, sì, ma prima del live mi isolo da tutto, non mangio, non bevo, ripasso le barre, mi studio le situazioni; sono in un giardino zen mentale. Non è ansia, mi devo preparare, sono lì con gli altri che aspettano di cominciare ma non sono lì, come dissociato; un po’ alla volta mi sto sciogliendo, però non fare questa cosa ogni giorno, arrivare a una serata dopo turni giganteschi di lavoro, mi spinge a consumare anche le ore notturne per essere sicuro di avere tutto sotto controllo, di ricordare i testi. Fermo restando che stare di fronte al pubblico sia un’emozione unica.

B: proviamo ad allargare lo sguardo da te, quindi da Messina, fino alla Sicilia tutta. Tra esponenti più noti (Johnny Marsiglia, Big Joe, MadBuddy, Louis Dee) e un underground sempre molto attivo (St. Luca Spenish, Daweed, EliaPhoks, Turi Moncada, Dj Rage), la scena isolana sembra tutto fuorché periferica; da osservatore interno, qual è il tuo punto di vista in merito?
TZ: secondo me in giro c’è un sacco di gente che fa roba spacchiusissima! Praticamente su quasi tutte le province c’è una copertura ben delineata – e ci sono anche un po’ di schifezze, diciamolo…
B: …quelle non mancano mai.
TZ: esatto. Non mi piacciono le robe col siciliano storpiato ma è una questione soggettiva, un mio limite. Come dicevi: ci sono realtà affermate, artisti come Buddy che quando fanno le loro cose mettono sempre un punto fisso e incontestabile, l’ha dimostrato anche in “Dove mangiano i cuochi”, è tornato Bras, ci sono i ragazzi di Catania, c’è la trasversalità della stessa Rina Niura… Abbiamo un parco di suoni ricco, ben definito, con una squadra davvero valida di artisti: la scena siciliana è in un momento di grande comprensione di sé e del proprio posto, secondo me nel Rap il sud Italia si sta riprendendo spazi importanti e ci sta riuscendo anche grazie a tutti noi.

B: l’ultima domanda è difficile. Chi senti di dover ringraziare, per essere arrivato dove sei?
TZ: (ci pensa a lungo – ndB) figure umane e figure eteree, diciamo… Senza dubbio la cultura del lavoro e del sacrificio la devo a mia mamma, mi ha insegnato come stare al mondo con dignità e in ogni situazione, soprattutto quando la vita non ti offre troppe scelte. Partita da zero, ma con un focus, una visione, che dopo tanti sacrifici le hanno permesso di mettere in piedi la sua piccola realtà. Se poi vogliamo stare nell’ambito musicale, devo tantissimo a Il Torsolo, a Blobbi e a tutti i ragazzi che hanno creduto in me, ad Aleaka, che in origine era il mio produttore di riferimento (“La malattia” con Cali è in assoluto uno dei miei dischi preferiti) e oggi è un amico e una persona con cui ho condiviso autentici pezzi di vita. Infine, tutte le persone che magari non ti dicono sempre che è tutto perfetto, che sei bravo, ma che col loro affetto ti spronano, ti ricordano che puoi fare meglio, anche perché sono staccate dal contesto Hip-Hop e con loro non te la cavi facendo lo stronzo; in questo caso sicuramente la mia compagna, che riesce a non smattarmi dietro. Detto ciò, penso di non essere arrivato ancora da nessuna parte, sto lavorando per fare delle cose che mi piacciono e che voglio continuare a fare.

Antonio io, Antonio lui, entrambi – evidentemente – originari del sud Italia, a dispetto dei quindici anni di differenza ho percepito numerose corrispondenze, a dimostrazione del fatto che, come lo stesso Zeno ha detto in diverse fasi interlocutorie dell’intervista, l’Hip-Hop faccia spesso da collante, da elemento che attrae e unisce nel dare una certa visione alle cose. A nostra volta, torniamo a quell’ultima domanda e lo ringraziamo per la disponibilità e la gentilezza percepite in ogni risposta: speriamo di avervi stuzzicato, perché prossimamente sarà la sua musica a parlare…