Intervista ad Apollo Brown e Philmore Greene (28/10/2022)
Mentre mi preparo a intervistare Apollo Brown e Philmore Greene, mi accorgo di una curiosa coincidenza: l’ultimo artista che ho intervistato, nel settembre del 2021, è stato Bronze Nazareth, nativo di Grand Rapids, Michigan, proprio come Apollo. Raggiungo lui e Philmore attraverso Zoom, loro spaccano il minuto e fanno ingresso nella chat a mezzogiorno in punto, orario della east coast americana, pronti a parlare della loro nuova fatica congiunta, “Cost Of Living“, la quale vedrà la luce del sole il prossimo 15 novembre. Avendo avuto il privilegio di poter ascoltare l’album in anteprima – con futura promessa di recensione strappatami dai due protagonisti… – mi sono venute in mente molte curiosità, perciò stilare la classica trafila di domande è stato più agevole di quanto pensassi. Dopo i saluti e le presentazioni di rito, via dunque di fretta: i quaranta minuti di Zoom non perdonano e devo assolutamente spuntare ogni cosa che ho messo in lista! Apollo risponde dal suo studio personale (<<yeah, that’s my lab! Here is where I mess around!>>), mentre Greene ci parla dalla sua auto, parcheggiata in qualche zona della sua Chicago in una bella giornata assolata…
Mistadave: sono molto felice di avere la possibilità di parlarvi, ragazzi. Come va?
Apollo Brown: molto bene, grazie, finalmente vengo intervistato da qualcuno che ha più capelli grigi di me… (ce la ridiamo di gusto – ndMistadave)
M: …in effetti dovrei essere più vecchio di te… (e lo sono, esattamente di quattro anni – ndM) Una curiosità, Apollo. Sai che l’ultima intervista che ho fatto ha avuto per protagonista qualcuno che conosci bene e che viene da Grand Rapids? Si tratta di Bronze Nazareth…
AB: grande! Siamo amici da sempre, siamo letteralmente cresciuti assieme e abbiamo seguito percorsi del tutto simili.
M: partendo da Grand Rapids… E’ quasi nel mezzo tra Detroit e Chicago: rappresenta simbolicamente un punto d’incontro tra te e Philmore Greene?
AB: sì, più o meno. Se tiri una linea dritta sulla mappa, probabilmente è più vicina a Chicago ed è per questo che oggi mi vedi con un cappellino dei White Sox (ride – ndM).
Philmore Greene: grazie, fratello, lo apprezzo molto! (ride pure lui – ndM)
M: stai quindi rappresentando Chicago per omaggiare il tuo amico Philmore Greene?
AB: noooooo… (se la ridono entrambi – ndM) Rappresento assolutamente tutto quello che riguarda Detroit, il luogo dove mi sono formato artisticamente e dove mi sono trasferito a partire dal 2003 in cerca di nuove opportunità di lavoro. Sono arrivato lì dopo il college, mi sono laureato presso l’università di Michigan State, quasi vent’anni fa. Ho traslocato assieme a Bronze Nazareth, inizialmente condividevamo una stanza a Detroit, come avevamo fatto al college. Abbiamo fatto parecchie cose assieme, ci conosciamo da quando avevamo cinque anni. Tornando alla tua domanda, penso che Detroit e Chicago siano due città molto simili, fatte di gente che lavora duramente tutti i giorni, entrambe perseverano nel voler uscire dai loro problemi e hanno sofferto molto la loro reputazione. Entrambe sono state in cima alla lista dei luoghi più criminosi e infestati da omicidi, ma si sono sempre prese le loro rivincite. Sono due città magnifiche, ma non sai mai se ci troverai l’Inferno quando ci andrai. Sono posti abitati da gente meravigliosa, nonostante i pregiudizi che si leggono in giro.
M: Philmore, tu vieni dalla west side di Chicago.
PG: sì, amico, Chicago, all day everyday.
M: chi erano i tuoi idoli Hip-Hop quand’eri più giovane?
PG: ah, erano veramente tantissimi. East coast, west coast, il Dirty South… Posso sicuramente mettere in cima Jay-Z e Nas, il Wu-Tang Clan, ma anche Scarface, Dre e Snoop – e la lista potrebbe non finire più. Nella golden era del boom bap c’erano tantissime cose meravigliose che uscivano con grande continuità. Allora ero giovane e avevo ancora tanta strada da fare nella conoscenza dell’arte, ma ora che sono arrivato dove desideravo capisco quanta influenza abbiano avuto quei dischi per me, molti li ascolto regolarmente ancora oggi. Potrei passare tutta l’intervista a elencarti ogni rapper che mi ha ispirato.
M: e che tipo d’influenza ha avuto Common su di te, essendo anche lui di Chicago?
PG: eh bè, lui sta sul Mount Rushmore di Chicago, qui è un’istituzione, rappresenta la città, è stato determinante perché ci ha messo sulla mappa nelle fasi iniziali di sviluppo della golden era facendo un sacco di lavoro importante per noi. Anche oggi che ha raggiunto un grande livello di fama continua a rappresentare Chicago.
AB: “Resurrection” è un classico dell’Hip-Hop, così come lo sono “Can I Borrow A Dollar?” e “Be“.
PG: “Be” è senza dubbio il mio preferito!
M: Apollo, so che hai l’abitudine di conoscere approfonditamente qualcuno prima di lavorarci insieme.
AB: assolutamente sì.
M: e come siete entrati in contatto, tu e Greene?
AB: anzitutto lo seguivo come artista, poi in seguito l’ho conosciuto personalmente attraverso un mio amico, Rashid Hadee, un produttore che ha lavorato molto con Philmore. Chiunque sia approvato da Rashid, può tranquillamente lavorare con me. Prima di conoscerlo conoscevo quindi la sua musica e la sua fama. E’ venuto in tour a Detroit qualche volta e sono andato a vedere lo show, abbiamo parlato molto, finché non siamo arrivati a esprimere il desiderio di realizzare un progetto assieme, che fosse una singola traccia, un album o una collaborazione su uno dei miei album, qualsiasi cosa. Abbiamo atteso che si aprisse una finestra di opportunità per creare quest’album ed è così che “Cost Of Living” ha avuto origine.
PG: all’inizio pensavo che avremmo lavorato a un semplice featuring da inserire su qualcuno dei vari progetti che Apollo stava producendo, ma lui voleva chiaramente estendere il tutto a un disco intero. E’ successo tutto in maniera molto naturale, quando ho sentito i beat a Detroit ho iniziato a formulare i miei pensieri già mentre facevo rientro a casa. Poi ho cominciato a scrivere moltissimo e ho preparato tutto in breve tempo. Sono tornato a Detroit con i testi e abbiamo avviato le registrazioni.
M: quindi hai avuto prima i beat?
AB: questa te le racconto io, perché è pazzesca. Di solito spedisco i beat all’interessato per poi ricevere il pezzo completo, in questo caso, quando Philmore è venuto a Detroit, ci siamo chiusi in studio di registrazione e gli ho fatto ascoltare i beat al momento.
PG: già, per me è stata la prima esperienza di questo genere!
AB: eravamo in questo studio con tutti i monitor accesi in modo che tutto si sentisse come si doveva, ho invitato un po’ di amici per le sessioni di ascolto e abbiamo cominciato a creare un’intesa. Se mi conosci bene, sai che non mando beat via mail per ragioni professionali, voglio riuscire a catturare la chimica che si crea nell’aria direttamente sul posto, perché è una delle ultime cose che ci rimane da vivere con naturalezza in quest’era digitale. Comporre qualcosa trovandosi nello stesso luogo è diventata un’eccezione alla regola.
M: hai cominciato a fare beat nel 1996. Immaginavi che saresti diventato ciò che sei oggi nel 2022?
AB: no, amico, proprio no… Ho cominciato a produrre con Bronze Nazareth per divertirmi più che altro, l’esigenza era nata dal non voler più essere solo un ascoltatore di Hip-Hop, ma uno che ne faceva parte. Ci siamo dilettati parecchio, poi le cose hanno cominciato a progredire, a uscire migliori, ma in ogni caso non ho mai fatto sentire nulla che fosse stato composto nei dieci anni successivi. Le prime cose che ho fatto ascoltare davvero, risalivano al 2007, molto più tardi rispetto a quando avevamo cominciato. Facevo tutto in camera mia, mi definivo un bedroom beatmaker. Non ero un producer, allora, ero un beatmaker – per me sono due cose diverse. In seguito, ho pubblicato “Skill Trade“, una collezione di beat vecchi, da terminare o rifinire, con la sola intenzione di comunicare che c’ero, che esistevo. Pensavo rimanesse una cosa strettamente locale, ma poi ha raggiunto orecchie importanti e dopo non molto tempo ho ricevuto la telefonata di Michael Tolle della Mello Music Group. Il 3 gennaio del 2010 mi ha ufficialmente inserito nel roster dell’etichetta con un contratto da produttore e da lì il resto è storia conosciuta. Non avrei mai pensato di fare della musica il mio sostentamento, uscito dal college con una laurea in business e risorse umane, avevo pensato che avrei trovato lavoro in una delle tre grandi aziende di Detroit (le chiama le big three – ndM), ovvero la GM Motors, la Chrysler o la Ford, pensavo avrei messo giacca e cravatta ogni giorno. Il fatto che a qualcuno piacesse la mia musica mi ha davvero sorpreso e ha cambiato la mia visione del futuro. Quella chiamata con Michael è stata una manna dal cielo, ero stato licenziato due giorni prima e ancora oggi mi chiedo come abbia avuto il mio numero. Mi sono dato un anno di tempo: se in quell’arco temporale il mio conto in banca non avesse rispettato le mie aspettative, se non avessi raggiunto lo status artistico a cui puntavo a livello di qualità, avrei lasciato stare e avrei ricominciato a mandare in giro curriculum.
M: e poi sei diventato uno dei produttori più apprezzati dell’ultima decade!
AB: grazie mille, lo apprezzo davvero. Sì, non sono tornato a un lavoro normale negli ultimi tredici anni, quindi direi che è andata bene! Spero vada avanti così, perché sai, l’industria musicale è volubile e cerco di pensare solo da un anno all’altro, non più avanti. Sono davvero grato di essere tra i nomi più importanti della produzione Hip Hop contemporanea.
M: eri piuttosto bravo da subito, direi… (gli mostro in video la mia copia di “Gas Mask“, seguita da “Trophies” e “Daily Bread” – ndM)
AB: ooooohhhhh, hai il CD di “Gas Mask”, grande! Oggi vale una fortuna, lo trovi solo su Internet a un sacco di soldi!
M: Philmore, c’è molto dolore nelle liriche di “Cost Of Living”. Come hai tradotto le tue esperienze personali in questi testi?
PG: in realtà, tutto comincia con la produzione, che è la guida per scrivere. Ho ascoltato i beat, li ho trovati molto cinematici grazie ai sample di corde e archi, li ho sentiti tutti tre o quattro volte, volevo catturare ogni loro particolare, ogni rullante, ogni campione, tutto ciò che l’attenzione delle persone normalmente non coglie. Non parlo direttamente delle cose che mi sono successe o che ho dovuto passare per tirare avanti, aspetto di riuscire a esprimermi con il cuore. Apollo, visto il tipo di produzione che mi ha proposto, mi aveva consigliato di aprirmi molto nella scrittura – e così ho fatto. Su questo disco ho trattato molte tematiche di cui non avevo mai parlato prima, offro racconti di vita vissuta, cose realmente accadute, in una certa misura mi curo di non fare nomi tenendo i protagonisti di queste storie nell’anonimato. Le vere esperienze di vita non riguardano solo me, ma tutti noi, qui ho attinto da varie vicissitudini nelle quali molte persone si potranno riconoscere. Conosco precisi dettagli e le testimonianze di alcune storie di cui parlo. Quando mi riferisco a una madre che soffre per il destino di suo figlio (non dice il titolo del pezzo, ma si tratta di “Just Imagine” – ndM), non rivelo di chi parlo, desidero solo che altre madri di qualsiasi parte del mondo possano ascoltare questa storia e relazionarcisi, aiutandole a superare la loro sofferenza. Le persone guardano a noi come modelli, non importa a quale livello di bravura o esperienza tu sia. Abbiamo questo dono di saper mettere le parole in rima e a ritmo, di comporre beat, di riuscire a esternare delle emozioni, in particolare il dolore e la sofferenza, che poi vengono catturate da chi ascolta i pezzi. E voglio sempre continuare su questa strada.
M: seguendo i testi, si capisce molto chiaramente che parli dal cuore.
PG: sicuramente, ogni rima che scrivo deve venire dal cuore, altrimenti neppure mi ci metto. I rapper sono tutti diversi, ognuno ha le sue caratteristiche, il suo modo di porsi. Guarda ad esempio Sean Price: lui era serissimo, minaccioso in ciò che diceva, ma ci metteva moltissima ironia. Quando diceva robe tipo <<slap the shit out of your favorite rapper>> mi faceva morire dal ridere, ma lo diceva con serietà. Al contrario, DMX, riposi in pace pure lui, era un mc molto aggressivo, anche in pezzi come “Slippin’“, che non richiedevano di esserlo, lui è sempre se stesso. DMX non metteva mai ironia nei suoi pezzi, eppure a modo suo arrivava a comunicare lo stesso messaggio di Sean Price, con modalità del tutto differenti. Il mio stile è invece molto semplice, diretto, dico le cose dal cuore e non cerco confronti o competizione, ti dico le cose in faccia, così come stanno.
M: la copertina dell’album riporta una fotografia di un’insegna di Chicago, ma lo sguardo è offuscato dalla pioggia. E’ un modo per esprimere l’umore delle tematiche dell’album?
AB: quella copertina per me è perfetta, riesce a trasmetterti le emozioni contenute nel disco. Non c’è una skyline della città, quella fotografia ti dà una visione diversa di Chicago, più interna. E’ l’insegna del Chicago Theatre, visivamente utilizzata milioni di volte ma mai in quel modo, perché non appare davanti a tutto, ma è in secondo piano. L’immagine è scattata con una finestra davanti mentre scende la pioggia, il che rende l’idea della profondità degli argomenti di cui Philmore ha scritto. Appena ho visto la foto, ho fatto di tutto perché diventasse l’immagine del nostro lavoro.
M: è una copertina molto comunicativa e devo dire che i tuoi beat riflettono altrettanto bene lo stato d’animo delle liriche.
AB: l’album è un abbinamento perfetto (lui lo definisce come a match made in heaven, che rende senz’altro meglio l’idea – ndM), tutto è stato composto al massimo della congiunzione, a partire dalla scrittura, passando dalla cadenza delle liriche, per finire coi beat. Tutto è stato messo assieme come doveva.
M: nell’intro (“Consequences”) si sentono urla di bambini che giocano in sottofondo alla musica e al parlato. I flauti, i suoni che si percepiscono, trasmettono un particolare senso di innocenza…
AB: è un’introduzione che ti prepara a ciò che troverai in seguito, ti fa acclimatare nei confronti degli argomenti del disco.
PG: non lo dico perché parlo di noi, ma secondo me è un’intro perfetta, una delle migliori di sempre. Non potrei riascoltare quel disco senza prima sentire l’intro.
AB: riguardo quel senso d’innocenza di cui parlavi, credo che ognuno tragga le sue personali conclusioni e sensazioni al riguardo. Ed è la cosa più bella del creare un album. Sai che ognuno coglierà delle cose diverse. Difatti, se fai un sondaggio e chiedi qual è la canzone migliore dell’album, avrai molte risposte differenti. Ed è questo che ti dimostra di aver fatto un buon lavoro, non vorrei mai che tutti scegliessero sempre lo stesso pezzo. Mi piace produrre cose che incontrino gusti differenti e la risposta del pubblico è determinante nell’indicare che il disco sia vario e longevo, raggiungendo gli obiettivi prefissati durante la sua lavorazione. Come per ogni traccia, l’intro farà sorgere emozioni differenti in ciascuno, dipende da cosa ognuno ci sentirà, magari sarà un altro suono, un’atmosfera, la musica. Qualcuno si relazionerà alle parole che vengono dette, qualcun altro avrà familiari o amici che potranno relazionarcisi. Credo sia questa la parte più eccitante del nostro progetto.
PG: ci sono tantissime barre da riavvolgere, riascoltare, capire. Tante frasi estratte dal disco potrebbero a mio avviso essere stampate per delle magliette. C’è molto insegnamento da trarre da alcuni passi. Questa è la mia vita, il mio modo di esprimermi; ed è il lavoro più dettagliato che abbia mai scritto.
M: sono rimasto favorevolmente colpito da “Keep Goin'”, perché insegna a reagire alle peggiori avversità con un atteggiamento positivo.
PG: sì, esatto, è uno dei concetti di cui parlo sempre alla mia figlia più grande. Non mollare mai, le dico. Devi passare attraverso certi eventi che la vita ti pone davanti e, quando sono negativi, devi sapere come arrivare dall’altra parte con determinazione. La vita non è una festa e la gente ha bisogno di sentirsi comunicare certe cose. Non sono certo uno di quei rapper super duri e dall’aria superiore, parlo di ciò che sento dentro di me e sono un artista versatile. Posso esibirmi a uno show di Hip-Hop hardcore come pure a una festa per il ritorno a scuola e adoro questa cosa, questo sapermi adattare alle situazioni cercando di non essere intrappolato in una definizione. Tutto quello che faccio è cercare di distribuire positività in giro. Il mio cognome è Love e agisco sempre di conseguenza! Non importa che cosa ti si pari davanti, l’importante è proseguire determinati nel proprio cammino.
M: e immagino non sia stato semplice parlare delle tue difficoltà personali in “This Is Me”…
PG: non lo è stato per nulla. Il brano è stato ispirato da una mia grande amica, con la quale sono cresciuto. Una ragazza con un’intelligenza fuori dal normale, talmente brava da sbagliare una sola domanda al test ACT (un test per l’ammissione al college – ndM), sarebbe stata ammessa in qualsiasi università americana. Dahara Jones. Venivamo dallo stesso quartiere, abbiamo frequentato lo stesso asilo, elementari, medie, superiori. Nel 2020 ha deciso di togliersi la vita e ho perduto una persona che in passato mi ha sempre dato un grande supporto morale. La sua figura è stata determinante per decidere di aprirmi sui miei trascorsi, sui problemi che le mie esperienze personali hanno causato alla mia salute mentale, ciò che ho dovuto passare da ragazzino, ciò che ho visto e testimoniato (all’età di 14 anni fu testimone di un omicidio, con conseguente frequentazione di terapisti mentali – ndM), era come se lei stessa mi stesse suggerendo di affrontare a viso aperto quelle difficoltà attraverso la scrittura. Prima di stendere il pezzo, ho consultato sua sorella Ashley, le ho esposto la mia idea. Come dicevo prima, non uso fare nomi esplicitamente, ma Dahara è chiaramente l’ispirazione che ha fatto nascere “This Is Me”. Dobbiamo restare forti, non siamo macchine ma esseri umani e tutti abbiamo delle difficoltà con la nostra salute mentale. Ma dobbiamo andare avanti.
M: mi ha impressionato anche il primo singolo, “Time Goes”, perché il suo contenuto coincide con una mia idea personale, ovvero che viviamo in un mondo sin troppo pieno di futilità.
PG: l’idea per il testo è nata da una conversazione che ho avuto con mio fratello, nella quale stavamo constatando di non essere più i giovanotti di una volta, ma nemmeno vecchi, e quindi inseriti in una via di mezzo. Pensando ai ragazzi di oggi, ragionavamo su come i telefoni cellulari siano diventati il fulcro della vita, delle relazioni sociali, grazie alle tecnologie dei cellulari stiamo persino facendo quest’intervista riuscendo a vederci in faccia e siamo dalle parti opposte del mondo. Con questo brano volevo spiegare le differenze tra il mondo di quand’ero giovane io e quello attuale, usufruendo di una serie di figure specifiche, sottolineando che il modo di vivere e interpretare le cose oggi sia pieno di stranezze, la tecnologia è un’arma a doppio taglio. Abbiamo tutti bisogno di questo strumento perché è insostituibile per la vita quotidiana, il problema è che i ragazzini usano esclusivamente quei tasti per comunicare tra loro.
AB: i ragazzini sono socialmente inetti. Non sanno come condurre una normale conversazione. Quando vai al centro commerciale non vedi altro che bambini, ragazzini di ogni età con la testa rivolta verso il basso, immersi nei loro telefoni, nemmeno si parlano tra loro. Ma perché allora vai al centro commerciale? Noi ci andavamo per godere ognuno della compagnia dell’altro, scherzavamo, ridevamo, ci divertivamo un sacco. Non voglio assolutamente che mi si prenda per uno che sostiene che ai suoi tempi era tutto migliore, per carità, ma non puoi permetterti di perdere ogni capacità comunicativa a livello sociale. Poi mi fa molto arrabbiare il fatto che molti incidenti in macchina siano causati da chi sta scrivendo un messaggio, che non vedono un’auto ferma davanti a loro o, peggio, qualcuno che attraversi sulle strisce pedonali. Sto al telefono molto tempo come qualsiasi altra persona, d’altra parte è il mezzo per condurre i miei affari, ma so quand’è il momento di metterlo da parte, se non addirittura di spegnerlo.
M: avete in mente di girare qualche video per promuovere l’album?
AB: sì, la settimana prossima pubblicheremo il video per “Steep Life” (che infatti poi abbiamo segnalato qui – ndM). Ne abbiamo un altro, forse altri due, in programma. Vorremmo cercare di realizzarne tre in totale.
M: e andrete in tour?
AB: assolutamente sì, non vedo l’ora! Vorremmo far marinare un po’ il disco, che gli ascoltatori ci prendano confidenza prima di proporlo dal vivo. Sono impaziente di partire.
Su queste parole, sono costretto a chiudere una conversazione che avrei portato avanti più che volentieri, grazie anche alla disponibilità dei miei interlocutori nel raccontare la genesi della loro collaborazione. Il countdown imposto da Zoom è inesorabile, quindi passo ai saluti ed esprimo tutta la mia gratitudine ad Apollo Brown e Philmore Greene (major props, come sempre, al nostro amico Andy, che rende possibili queste interviste!), lasciandoli ai rispettivi impegni di giornata. “Cost Of Living” uscirà la prossima settimana per Mello Music Group, ci risentiamo su queste stesse pagine non appena il tempo ci permetterà anche di recensirlo…
Mistadave
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