Intervista a Claver Gold (12/12/2017)
Uscito lo scorso novembre, “Requiem” si è subito rivelato un capitolo decisivo nel percorso artistico di Claver Gold, arrivato a coronare un decennio abbondante e ininterrotto di pubblicazioni con una prova interamente dedicata all’introspezione più fitta. Daycol – così all’anagrafe – ha atteso a lungo il momento per questo lungo sfogo, sbocciato all’ombra di sicurezze che comprendono il solido rapporto instaurato con la Glory Hole Records e Dj West, compagni d’avventura quantomai preziosi nella definizione di una carriera giunta a un chiaro punto di svolta. Abbiamo provato a ricostruire il tutto con Claver…
Mr. Bushsdoc: iniziamo con le domande di rito. Come sei entrato in contatto con la Cultura Hip-Hop e con il Rap?
Claver Gold: sono entrato in contatto con il Rap più o meno nel ‘99, tramite il writing. All’inizio sono stato affascinato più dalla cultura del writing – anche perché nella mia città non c’era nessuno che rappasse; mi ci sono avvicinato per poi scoprire le prime battle di freestyle e i primi dischi. Ascoltavo Rap ma non facevo Rap. Mi piaceva più dipingere e solo in seguito ho iniziato a rappare.
MrB: e come mai ha iniziato a farlo?
CG: un po’ per sfida personale, un po’ per capire cosa si nascondeva dietro a tutto quel mondo. Volevo buttare fuori tutto ciò che avevo dentro e mi sembrava il modo migliore per riuscirci.
MrB: quali sono i tuoi riferimenti artistici, non necessariamente legati al Rap o alla musica in senso stretto?
CG: io sono appassionato di scrittura e di arte in generale, quindi sono molto legato al mondo del cantautorato. Mi piace molto Capossela, probabilmente uno dei miei artisti preferiti, poi la letteratura ha molto influenzato il mio modo di scrivere e anche l’arte iconografica e i quadri mi affascinano molto. Prendo molta ispirazione da e uso citazioni di quadri e artisti.
MrB: in “Libertà” a un certo punto dici <<libero gli uomini immobili/come i più grandi filosofi>>. Leggi anche di filosofia in maniera abituale?
CG: no, abituale no. Ho un passato non da cultore ma da semplice lettore, da appassionato. Chi ho più approfondito è stato Spinoza, di cui mi ha molto colpito la parte in cui parla della solitudine delle persone. Mi ci sono molto rispecchiato.
MrB: e invece quali sono i riferimenti più legati all’Hip-Hop? E quanto questi hanno influenzato la tua scrittura?
CG: tra gli americani, sicuramente i Mobb Deep, Nas, Mos Def, i Jedi Mind e tutto quel filone lì; tra gli italiani, sono molto legato ai lavori di Fibra, alle robe di Bean e “Novecinquanta” è sicuramente uno dei miei dischi preferiti.
MrB: a proposito di Fibra, sei ancora oggi un suo fan?
CG: io sono un super fan di Fibra. Ogni tanto gli mando degli audio quando ascolto i suoi pezzi o quando, qualche volta, li ricanto.
MrB: andiamo un po’ più sul disco. In quanto tempo è stato realizzato e che lavoro ha richiesto “Requiem”?
CG: io sono sempre molto lento nello scrivere; anzi, più che lento nello scrivere proprio, sono lento nel concepire il testo, quindi c’è stato un lavoro lunghissimo di scrittura durato quasi un anno e mezzo. Avevamo circa 25/26 pezzi, alcuni li abbiamo scartati e messi da parte: perché erano di livello sicuramente più basso o perché erano fuori contesto. Il lavoro è stato lungo anche per quel che riguarda i campioni da risuonare. C’erano dei campionamenti nel disco che non potevamo usare per ovvi motivi, perché non è più come negli anni ‘90 quando prendevi Vasco Rossi e lo buttavi dentro; ora ti fanno il culo se ti beccano, quindi ci sarebbero stati problemi di copyright. E allora abbiamo dovuto risuonare tutti i beat realizzati coi sample, trasformarli in musica con degli strumenti veri e propri o con dei sintetizzatori. In totale sono stati due anni, due anni e qualcosa; però alla fine siamo contenti di come sia venuto.
MrB: il requiem è una messa celebrata in memoria di un defunto. Molto banalmente, qui il defunto chi è?
CG: il defunto è il passato che torna sempre a farti visita. Io volevo un po’ esorcizzare tutti gli avvenimenti del passato, raccontarli in modo che non tornassero più a trovarmi, quindi liberarmene definitivamente. “Requiem” consiste in una specie di colonna sonora per gli avvenimenti della mia vita, che siano i problemi familiari, i problemi personali, gli amici, gli amori passati e robe del genere.
MrB: proprio a questo proposito, nella recensione ho scritto che “Requiem” è un disco che fa male. E allora la mia domanda è: qual è l’impulso che ti porta a scrivere cose così intime? Perché qui non si tratta di un semplice discorso di riflessioni personali, c’è un’apertura totale verso chi ti ascolta e questa cosa mi ha impressionato davvero tanto.
CG: forse perché non ho niente da nascondere. Non c’è un personaggio che fa le mie veci o che devo mantenere intatto. Posso essere libero di dire e fare ciò che voglio. Posso essere libero di non fare un’intervista, posso essere libero di scrivere una roba che capiscono in tre, libero di fare la musica che mi piace, di usare i beat che voglio usare, di usare il boom bap invece dei beat che mi permetterebbero di raggiungere un pubblico più ampio. Posso essere libero di raccontare me stesso senza nessun filtro che cambi il significato delle mie parole. Posso scrivere cose facilmente interpretabili e altre meno – e che magari sono recepite come ognuno le recepisce.
MrB: quindi c’è qualche differenza tra Claver Gold e te come uomo?
CG: no, sono la stessa cosa. Se avessi potuto, o meglio, se potessi tornare indietro farei Rap col mio nome di battesimo, che è Daycol. Ho preso Claver soltanto perché era un nome che usavo per taggare, quindi l’ho mantenuto; ma non avrei avuto bisogno di uno pseudonimo per raccontare le mie cose.
MrB: non ti fa paura essere così trasparente?
CG: delle volte accuso molto i commenti e le critiche, perché sono molto empatico, ma alla fine non ne risento più di tanto, perché comunque c’è sempre una sofferenza primordiale.
MrB: e nel momento in cui fai un disco di questo tipo, così personale, così intimo, non rischi in qualche modo di mettere da parte l’intrattenimento?
CG: tu credi che “Requiem” sia un’opera che viene ascoltata meno di qualcosa di più leggero? Scrivere in questo modo ti porta a sentire più volte un pezzo per capirlo e interpretarlo. Tornando al discorso di prima, se io ascolto un singolo Rap molto semplice, lo faccio andare due volte e l’ho già capito, lo so già a memoria. Come rapper, non come ascoltatore, mi è facilissimo capire che struttura hai usato, che cosa stai dicendo e che rime stai usando. Secondo me, invece, un lavoro come questo o magari come quelli di Murubutu, ti portano ad ascoltare il disco più volte.
MrB: sempre in “Libertà” scrivi <<racconto storie tristi come fanno i veri artisti/forse è per questo che funziono ma non vendo i dischi>>. Espandendo il ragionamento, ritieni che l’arte sia solo questa?
CG: no, sicuramente non è solo questa. Nessuno può dire con esattezza cosa non è, né posso farlo io. Filosofi, artisti e scrittori ne hanno parlato e nessuno è arrivato a poter decidere che cosa sia l’arte – tranne Duchamp che ha detto quella non è arte. Ovviamente tutto può essere arte, per me anche un carrozziere che t’aggiusta la macchina dopo che l’hai distrutta e che la rimette com’era prima ha la sua arte, perché io non so farlo. Anche quella di uno chef che esegue un piatto pazzesco è arte, però comunque non è la stessa di Picasso o di Rothko. Ci sono diversi livelli di lettura, quindi diversi livelli d’arte. Anche un brano leggero può essere buona musica ma magari non è arte. Un brano di De André può essere più arte di un brano di Enrico Papi.
MrB: in “Non c’è show” invece dici <<sono rimasto povero ma onesto/verso una Cultura che più vivo e più detesto>>. Cos’è che te la fa detestare e cos’è che poi ti porta a – diciamo – rifrequentarla?
CG: da “Melograno” a “Requiem” c’è un vero e proprio ritorno all’Hip-Hop. “Melograno” andava più verso una musicalità quasi Indie, “Requiem” segna invece un ritorno pressoché totale al Rap e alla Cultura in sé. Infatti trovi termini come b-boy, che nessuno usa più… Io ovviamente amo il Rap, mi ha salvato la vita e l’amerò per sempre; in determinate forme, però, lo detesto, perché è venuta a crearsi questa confusione tra gli ascoltatori come tra quelli che intraprendono il viaggio di voler fare Rap, che lo fanno e trasmettono determinate cose – o non comunicano proprio niente. Io non sono un integralista, un po’ forse sì, ma non sono radicale: non credo che il Rap debba parlare di Rap, assolutamente no, tuttavia è giusto venga trasmesso il senso di appartenenza alla Cultura Hip-Hop. Ovvero non è giusto staccare completamente il Rap dall’Hip-Hop. Il Rap fa parte dell’Hip-Hop e se fai Rap, devi essere Hip-Hop. Non puoi fare il Rap fuori dalla Cultura Hip-Hop.
MrB: ne fai anche un discorso di scelta musicale? O, tra virgolette, solo testuale?
CG: no, anche musicale. Nel senso, se ascolti il disco di Fibra, che ha fatto il quadruplo platino carpiato, è comunque Hip-Hop secondo me, ci sono dei pezzi che proprio li senti e dici questo è Hip-Hop. Quando senti Bassi Maestro, dici questo è il Rap, questo è l’Hip-Hop. Quando senti Fantini, dici questo viene dall’Hip-Hop. Quando senti altre robe, anche già dalla produzione, capisci che c’è molta contaminazione. Non dico sia una cosa sbagliata, perché ascolto anch’io la Trap, escono cose italiane tipo Ghali che ascolto, aggiungo anche che sono forti, però sicuramente sono meno Hip-Hop di tanta altra roba.
MrB: pensi ci siano artisti Trap che portano comunque avanti un certo discorso sull’appartenenza?
CG: tu che pensi?
MrB: per me qualcuno c’è. Tipo Rkomi, oppure in alcune cose Ernia; e anche Ghali, non so quanto possa essere escluso da questo discorso.
CG: ecco, su questi tre nomi mi posso trovare d’accordo con te – e forse soprattutto per quel che riguarda Rkomi. Però è appunto un cerchio molto ristretto.
MrB: rimanendo in tema, cosa sta diventando per te il Rap italiano?
CG: secondo me è un bel movimento. Sta diventando musica Pop intesa nel senso di popolare, che arriva alle orecchie di tutti. In America, ad esempio, non c’è un Celentano ma c’è Jay-Z – senza nulla togliere a Celentano… Ora qui non c’è più solo Celentano, c’è anche Salmo. Se oggi apri la classifica FIMI, su venti posizioni trovi sei dischi di musica Hip-Hop o comunque proveniente dalla musica black.
MrB: e pensi si stia costruendo una vera e propria scena?
CG: non c’è più una scena come magari era intesa negli anni ‘90. Non credo si possa parlare proprio di scena ma si sta creando un mondo, un movimento molto più ampio che riesce a prendere un pubblico di ascoltatori bello grande ed è importante che il Rap abbia avuto la sua rivalsa. Era ora. Poi tocca alla gente distinguere quale sia la roba forte e quale quella fatta per arrivare – e ora c’è la possibilità di farlo!
MrB: Torniamo al disco. La scelta del sound è particolare: non c’è niente che spicca sul resto però la sintonia tra voce e musica è perfetta. Se ci ripenso, non potevi dire quelle cose se non su quelle basi. E’ stata una scelta ponderata cercare l’atmosfera piuttosto che la bomba a tutti i costi?
CG: come ti dicevo prima, alcune cose sono state scartate proprio perché non producevano la stessa sintonia, non completavano il puzzle. Quindi abbiamo scelto questi pezzi perché rimanevano tutti nello stesso cerchio senza fare troppo rumore. Ma poi mi domando: non è che non fa tutto questo rumore perché è tutto di alto livello? A prescindere dalla preferenza soggettiva che può andare su un pezzo piuttosto che su un altro, secondo me non c’è niente che spicca perché il livello dei pezzi è tutto buono. Per dire, nei dischi mainstream ci sono tre singoli potenti e il resto è tutta roba di riempimento, quindi per forza gli altri pezzi sono più scarsi.
MrB: oramai si può quasi dire che tu e Dj West siate una sola persona, no?
CG: siamo molto amici. Usciamo insieme oltre a fare musica assieme e questa cosa si percepisce: quando si lavora, c’è qualcosa di più personale, magico. Per noi, è magico quello che viene fuori e anche noi, certe volte, ci emozioniamo e ci commuoviamo quando ascoltiamo i pezzi. Lui sa perfettamente quello che voglio io, non mi passerebbe mai un beat su cui sa che non rapperei. Certe volte fa robe mega Pop e ce le ascoltiamo per ridere – tanto è roba che non faremo mai. In sostanza è dalla musica, dal beat che nasce poi l’atmosfera del brano. E tra noi viene fuori questo sound così, noi siamo così dentro e mega allegri fuori, però la parte dell’allegria la teniamo per quando ci conosci di persona. Se ascolti il mio disco, pensi Madonna, questo sta in paranoia, invece sto benissimo perché esorcizzo la paranoia.
MrB: mai come nel tuo caso, quindi, il Rap è terapia.
CG: sì, io l’ho sempre detto. E’ autoanalisi, intesa proprio nel senso psichiatrico.
MrB: una curiosità. Mi sono fatto prima un giro sulla tua pagina Facebook e ho letto qualche prima polemica perché farai in-store e cose simili. Com’è avere a che fare con queste dinamiche?
CG: guarda, io la prendo malissimo perché la gente non si rende conto di quello che accade realmente. Digita e scrive cose a caso però, appunto, non si rende conto delle dinamiche che ci sono dietro a un disco prodotto da un’etichetta indipendente che vuol arrivare a tutta la nazione – e anche noi dobbiamo adattarci a questo, dobbiamo venire incontro alle esigenze degli ascoltatori. Anche perché il firma-copie può essere magari l’unico modo per comprare il disco fisico. Noi non abbiamo una distribuzione a livello nazionale, non siamo nei centri commerciali. Inoltre, se la mia etichetta spende una somma ipotetica di diecimila euro per l’album, io devo vendere mille copie per coprire i costi. Non è che qualcuno ci regala i diecimila, non siamo una major che ti dice ok, compriamo il master per cinquantamila. E’ diverso, noi dobbiamo vendere quelle mille copie per fare quei diecimila e poi dopo magari guadagnare qualcosa. Insomma, io cerco sempre di rispondere cortesemente e di spiegare nel modo più semplice che ci sono queste dinamiche, ma non è semplice perché non tutti capiscono e non tutti vogliono capire.
MrB: e quando arriverà il momento dell’eri meglio prima?
CG: ma ogni tanto me lo dicono già… Sì, però “Claver Gold è uscito dal gruppo” era meglio. E vabbè raga, io che posso farci? Ma tanto ci sarà sempre la gente a cui piacerà la roba di prima, non possiamo farci niente.
MrB: che ambizione hai riposto in “Requiem”? Che disco è “Requiem” per Claver Gold?
CG: quando faccio un disco spero sempre che vada meglio rispetto a quello di prima. Non spero di fare il disco d’oro o il platino, perché si sente dal suono che non è possibile. Quando faccio un disco o un singolo so benissimo che non è alla portata di tutti e me lo dice anche l’etichetta, quindi non è che ci facciamo chissà quali viaggi; noi facciamo semplicemente il nostro, quello che ci piace fare cercando di farlo sempre meglio. A noi piace uscire, suonare, fare i live, fare il Rap…
MrB: e rispetto alla tua carriera cosa rappresenta “Requiem”? Perché a me sembra una sorta di punto.
CG: sicuramente dopo ci sarà qualcosa di nuovo che però…per ora non ne ho la più pallida idea! Intanto, sì, ho chiuso un percorso: sono partito dal Rap, siamo usciti un attimo dal Rap con “Melograno” – che era l’Indie di cui adesso si parla tanto e che noi siamo stati tra i primi a fare – e siamo tornati indietro chiudendo un cerchio sia musicalmente che come storie di vita. Forse rappresenta davvero la morte del passato. Adesso vediamo cosa possiamo fare, però quelle cose tipo “Requiem 55” con il beat coi bpm lenti e le tecniche raddoppiate e stoppate mi piacciono molto…
MrB: ma un disco definitivo come “Requiem” ti ha fatto anche riflettere sulla tua carriera?
CG: no. Io a un certo punto mi sono solo detto sono stanco. Sono stanco di correre, di non avere il tempo per la famiglia. Sembra che i rapper non facciano un cazzo, invece c’è sempre da correre. Siamo stati in tour due anni con “Melograno”: perdi i giorni in macchina; interviste; scrivi; registri. Sono arrivato al punto in cui sono stanco, vorrei riposarmi ma non posso e quindi tocca correre ancora per vedere cosa succede. Ora è uscito il disco, siamo in ballo e balliamo, però sono stanco. Non vorrei fare mai la vita da popstar/rapstar: io voglio uscire a fare la spesa, voglio avere una vita normale. E’ una cosa che ha a che fare con me come persona, voglio stare tranquillo in mezzo a poco casino e con poche persone. La mia vita, per com’è ora, va bene così. Forse il mio timore di fare qualcosa di più Pop, per le masse, deriva anche da quello: è la paura di perdere la vita che ho conquistato, la vita che ho scelto di fare. Quindi preferisco fare quello che mi piace senza accontentare nessun altro a parte me. E’ una cosa molto mentale.
Mr. Bushsdoc
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