Jay-Z – The Black Album
Non so a voi, ma a me è capitato di riflettere sul come sarebbe stato l’allora futuro se lui non fosse mai tornato del tutto. Se quel fade to black non fosse stato sopraffatto dalla luce della tentazione. O forse è meglio dire della nostalgia. Se l’intento di quella letterina dedicata alla sua estate – <<dear summer, I know you gon’ miss me/…/gimme couple years, shit I might just sneak in>> – fosse rimasto racchiuso in quelle barre, senza compiersi. La verità, però, è che quel Jay-Z, quello in cui il rapper ancora predominava sull’imprenditore, infilando otto album (di cui uno doppio) da solista in otto anni consecutivi, si è davvero ritirato il 14 novembre di vent’anni fa. Ma questa è tutta un’altra storia; non quella che vi raccontiamo oggi.
Chi c’era e, soprattutto, era abbastanza grande, senz’altro si ricorderà dell’uscita di “The Black Album”. Lo stesso giorno faceva la sua comparsa sugli scaffali dei negozi di dischi (quelli veri…) anche il debutto ufficiale della G-Unit, “Beg For Mercy”, capitalizzando l’annata da record di 50 Cent e suggellando quello che poteva sembrare una sorta di passaggio di consegne nel CdA della Grande Mela. Al netto delle suggestioni, tuttavia, due decenni dopo possiamo dirlo: l’Album Nero di Shawn Carter è stato, più di ogni altra cosa, una prova di forza, tanto di fronte al resto della scena quanto nell’attraversare indenne le intemperie di un tempo che, in quel particolare mondo, scorre al triplo della velocità. E forse anche qualcosa in più.
Il suo momento di commiato Jay-Z l’aveva architettato meticolosamente, in pochi mesi. Si era circondato di un all-star team di produttori d’alta classifica – Just Blaze, Timbaland, The Neptunes, 9th Wonder e un Kanye West che ancora era in rampa di lancio – e pure qualche nome del tutto sconosciuto, ma con ogni riflettore puntato sempre e solo su di sé. Praticamente, nessuna concessione al microfono (se escludiamo una piccola ospitata di Pharrell nel ritornello di “Change Clothes”). Doveva essere il capitolo conclusivo. Una grande dichiarazione, da pronunciare nel giusto momento. <<From Marcy to Madison Square/to the only thing that matters in just a matter of years/as fate would have it, Jay’s status appears/to be at an all-time high, perfect time to say goodbye/when I come back like Jordan/wearin’ the 4-5, it ain’t to play games with you>>, citando la trionfale “Encore” che, nonostante le premesse, non sbatteva la porta in faccia a un possibile bis (<<so, motherfucker, if you want this encore/I need you to scream ‘til your lungs get sore!>>).
In poco meno di un’ora, Jay-Z ha compresso tutto. Il chi e il come. Dal principio, racchiuso in quel “December 4th” musicato da Just Blaze (<<they say they never really miss you ‘til you dead or you gone/so on that note, I’m leavin’ after this song/so you ain’t gotta feel no way about Jay, so long/but at least let me tell you why I’m this way, hold on>>). Il carattere autobiografico cede a quel punto il passo al metodo. Al non vi dico chi sono, ve lo faccio vedere. In “What More Can You Say” ripercorre il suo arco, su un beat firmato The Buchanans, in quello che sembra a tutti gli effetti l’estremo opposto della stessa passerella calcata intonando “The Ruler’s Back” un paio d’anni prima. “Threat” è orchestrata dalla Nona Meraviglia e vede Jay rientrare in modalità minaccia, à la “Pre Game”, mostrando che le armi sono rimaste lucide e affilate (<<I put the gun to ya, I let it sing you a song/I let it hum to ya, the other one sing along/now it’s a duet and you wet when you check out/the technique from the two TECs and I don’t need two lips/to blow this like a trumpet, you dumb shit/this is a unusual musical, I conduct it>>) nonostante il salto dai marciapiedi di Marcy alle ville negli Hamptons.
Nella carrellata ci potremmo mettere praticamente tutta la scaletta. Di certo “99 Problems” che, con la complicità cacofonica (e lo intendiamo col massimo dell’affetto possibile) di Rick Rubin, è divenuto con ogni probabilità il momento più iconico dell’intero album. E ancora l’introspezione profonda e cupa di “Moment Of Clarity”, su uno dei pochi beat assemblati da Eminem che non suona come quasi tutti gli altri. O la cerimoniale “Allure”, vero momento di trionfo personale, nota tra le altre cose per essere la canzone di Jay-Z preferita dallo stesso Jay-Z e che – questo lo aggiungiamo noi – probabilmente ha avuto il suo bel peso, in termini nostalgici, nel riportarlo qualche anno dopo sulla <<Hovito’s Way>>. Ma, se proprio si vuole individuare l’essenza dell’eredità lasciata ai posteri dal “…Black Album”, la scelta non può che ricadere su “Public Service Announcement”, una lezione di stile al microfono e alle macchine, con un Justino in formato super lusso.
Certo, parlarne oggi, con vent’anni di ascolti alle spalle, rende ogni analisi molto più facile. Al contrario, scindere la materia musicale da quell’aura che la stessa si è guadagnata, è ben più ardua questione. Ma probabilmente neanche avrebbe molto senso farlo. Perché “The Black Album” oramai non è più solo quei cinquantacinque minuti, è anche tutto il resto. E’ tutto ciò che si è detto e scritto. Quanto ha lasciato in eredità alla scena, che ne ha replicato e citato i frammenti. E’ vero, sì, poi Jay-Z è tornato. E ha fatto ancora tanto. Tantissimo. Ma non cambia la storia: “The Black Album”, anche senza il ritiro, resta il disco d’addio perfetto.
Tracklist
Jay-Z – The Black Album (Roc-A-Fella Records 2003)
- Interlude
- December 4th
- What More Can I Say
- Encore
- Change Clothes [Feat. Pharrell Williams]
- Dirt Off Your Shoulder
- Threat
- Moment Of Clarity
- 99 Problems
- Public Service Announcement (Interlude)
- Justify My Thug
- Lucifer
- Allure
- My 1st Song
Beatz
- Just Blaze: 1, 2, 10
- The Buchanans: 3
- Kanye West: 4, 12
- The Neptunes: 5, 13
- Timbaland: 6
- 9th Wonder and Jay-Z: 7
- Eminem with the additional production by Luis Resto: 8
- Rick Rubin: 9
- Dj Quik: 11
- Aqua and Joe “3H” Weinberger: 14
li9uidsnake
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