Planet Asia and 38 Spesh – Trust The Chain

Voto: 4

Quando la materia oggetto d’interrogazione si chiama street hustling, Planet Asia può senz’altro definirsi tra gli studenti più preparati della classe, anche senza necessariamente aver fatto i compiti il giorno prima. Negli anni, di anime condannate a morte l’Hip-Hop ne ha salvate parecchie, fornendo un’alternativa a coloro che hanno calcato un marciapiede cercando di piazzare qualcosa per sopravvivere a un futuro buio, facendo dell’esperienza un’arte; tale darsi da fare vive di parallelismi ma anche di punti di contatto: tra strada e Rap ce ne sono un’infinità, un rapporto figurativo costante che Jason Green ha utilizzato quale basamento per sviluppare il proprio stile, ritagliandosi più di vent’anni di registrazioni distribuite tra lavori solisti, in coppia (Cali Agents) e un numero incalcolabile di gettoni spesi su pezzi altrui. Non è questo lo spazio corretto per riassumere una discografia che definire copiosa non rende forse neppure l’idea, basti sapere che dal rapper originario di Fresno, California, giungono con eccellente puntualità molteplici offerte nell’arco dei dodici mesi, alimentando una catena di montaggio incessante che negli ultimi anni ha sempre privilegiato la simbiosi con il singolo produttore.

La tendenza è comprovata da “Trust The Chain“, le cui melodie giungono esclusivamente  dalle intuizioni di 38 Spesh, nativo di Rochester, New York, e quindi affine allo stile east coast che da sempre P.A. Medallions promuove, pur risiedendo nella sponda americana più orientale; un accostamento senza dubbio pertinente, vista la capacità di creare ambientazioni che si dividono tra cupo, mesto e minaccioso (una combinazione di cui si è recentemente servito addirittura Kool G Rap), fornendo il contraltare ideale per inanellare nuovi ed entusiasmanti intarsi lirici con un’abilità che non scopriamo certo oggi, esaltando le qualità di un rapper che continua a mantenere un alto livello di consistenza nonostante il trascorrere del tempo.

Voce tra le più riconoscibili e autorevoli di tutto il sottobosco Hip-Hop, Planet Asia fa dell’inventiva il suo alleato più leale offrendo semplicemente il piatto più squisito del suo menu, trattando sovente tematiche uguali ma reperendo nuove modalità per esprimersi con un linguaggio oramai padroneggiato con una maestria che pone in primo piano volubilità degli schemi metrici, varietà nel posizionamento delle rime e affluenza del flow, il tutto espresso con l’inconfondibile timbrica assai profonda. La duplice interpretazione delle liriche rappresenta il cuore del progetto, ma non per questo i testi rinunciano a seguire direzioni più mature e retrospettive, donando la necessaria omogeneità a un progetto che sfiora i trenta minuti di durata – siamo quindi negli standard del periodo. Il rapper dedica la maggior parte del disco a proporre ciò che sa fare meglio, conducendo il gioco all’interno del proprio ambito tenendo altresì conto che il senso delle liriche poco cambia se si è all’angolo della strada a rappare invece che a spacciare, l’importante è potersi guardare indietro, in un modo o nell’altro, con soddisfazione.

La tesi è opportunamente dimostrata da una “Mystery School” svolta su uno dei beat tra i più gradevoli del progetto, che utilizza archi, cori e un sample vocale ottimamente gestito in sottofondo per ricreare una malinconica atmosfera che rievoca afro, basettoni e zampa d’elefante, merce perfettamente in tinta con gl’intenti concettuali e stilistici dell’operazione. L’autoreferenzialità prende forme sempre differenti ma sempre da ricondursi a una determinata cerchia di analogie, concetto che vale tanto per le citazioni mafiose di “Body After Body”, bel pezzo d’apertura dove l’attore principale erutta metafore a ciclo continuo attaccando immaginifici avversari in compagnia del ritornello ottimamente costruito da Rasheed Chappell (peccato non gli sia stata riservata una strofa, visto il talento e la possibilità di sfruttare due tonalità vocali opposte), nonché dalla dimostrazione di superiorità fornita in “Resurrected Pharoahs” con intricate barre che faranno felici gli appassionati del basket americano meno ovvio (<<I’m from Fresno City, ain’t no shit you can do/I guess it’s tyrant like the God so just Skip To My Lou/shout out to Rafer, I shake niggas up and snatch paper assault…>>) su una strumentale che evoca un fumoso quartiere in notturna, in compagnia però del poco impressionante The Musalini.

Meglio, da questo punto di vista, il trittico collaborativo che aggiunge all’equazione Fred The Godson ed ElCamino, più che appropriati per innaffiare di rime rispettose verso gli OG’s che li hanno preceduti (“Learned From OG’s”) un boom bap sconsigliato a chiunque soffra di problematiche cervicali, esercizio che riesce magari meno bene in “Snake Charmer” e “Passport Player”, in ogni caso sorrette dall’efficacia degli incastri sillabici e dei collegamenti figurativi tra barre, portando nuovamente Rap e malavita a braccetto, senza tuttavia stancare.

I tratti più maturi del lavoro rivolgono frequentemente lo sguardo al passato, con ottiche diverse. “God Degree” permette di approfondire una dimensione di sé che l’artista ha esplorato ancora poco in relazione alla quantità delle sue sortite, svelando un angolo coscienzioso volto alla dietrologia sociale riportando alla luce ferite ancora aperte di trascorsi vergognosi (<<but fuck that we gettin’ rich from my people that was crucified, tortured and lynched/I’m a product of Kings and Queens and Gods and Earths and slaves anonymous/freedom or death is what we used to shout/so why we still throwin’ parties inside a burnin’ house/the Devil’s still tryin’ to burn us out/history repeats but you refuse to learn about.>>); un guardarsi indietro dissimile sia rispetto a quello malinconico dell’ottima “Tec And A Mink” (<<I thought that we’d have fun forever/nowadays at the funerals seems like the only time my niggas come together/nah, we gotta change that>>) che a quello celebrativo della trionfale “Juggernauts”, glorificazione del proprio itinerario artistico ricolma di passi degni di rewind (<<all hail Medallions the west kept secret/I’m doublin’ my prices for appearances and features/the clock of destiny is how the future was took/every song is a different chapter, every album’s a book>>), chiudendo con la retrospettiva di “Wintertime”, punto esclamativo poggiato sulla propria autenticità di strada e avvalorato da un’eccellente cucitura dei sample.

La conferma della granitica compattezza lirica, la versatilità tecnica, la verve sempre ispirata e pimpante rappresentano un aggregato di peculiarità che, unite alla determinante congruità dell’operato di 38 Spesh, motivano a opinione personale la promozione di “Trust The Chain”, al di là dell’esigua durata, quale miglior lavoro di Planet Asia sin dai leggendari tempi di “Pain Language“, arricchendo la fama di un personaggio che ha vissuto troppo a lungo l’ingiustizia della sottovalutazione.

Tracklist

Planet Asia and 38 Spesh – Trust The Chain (No label 2020)

  1. Body After Body [Feat. Rasheed Chappell]
  2. Resurrected Pharoahs [Feat. The Musalini]
  3. Mystery School
  4. God Degree
  5. Passport Player
  6. Snake Charmer
  7. Learned From OGs [Feat. Fred The Godson and ElCamino]
  8. Tec And A Mink
  9. Juggernauts
  10. Wintertime

Beatz

All tracks produced by 38 Spesh

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