Public Enemy – Nothing Is Quick In The Desert
Per presentare il quattordicesimo disco dello loro illustre carriera, i Public Enemy hanno scelto la strada della sorpresa e dei grandi numeri. L’annuncio di una pubblicazione prevista per lo scorso 4 luglio – data non certo casuale – giungeva difatti senza particolari campagne pubblicitarie, avvisando improvvisamente dell’imminente disponibilità del disco in free download temporaneo, cogliendo così l’occasione della trentennale attività del Nemico Pubblico per sottolineare traguardi importanti (106 tour in 105 paesi!) e ricompensare adeguatamente il sostegno della nutrita fan base dello storico collettivo.
Celebrazioni a parte, il messaggio è sempre stato il fondamento di ogni lavoro realizzato da Chuck D e soci e “Nothing Is Quick In The Desert” non rappresenta certo un’eccezione. Il lavoro è impostato sul paragone figurativo già ben illustrato dall’artwork, un concetto che allinea la percezione del deserto a quella dell’industria discografica attuale, due luoghi che appaiono privi di vita solo in apparenza ma in realtà offrono concreti strumenti per la sopravvivenza – nonostante la desolazione più assoluta. E’ un riferimento sicuramente azzeccato per un mercato tristemente impostato su una catena di copia/incolla difficilmente spezzabile, che costringe chiunque boccheggi in cerca del fabbisogno quotidiano di musica di qualità a scavare sempre più in profondità per rifornirsi di energie adatte alla resistenza della dignità dei propri padiglioni auricolari.
L’invito è quello di sempre e non è necessariamente legato a un lato politico le cui recenti vicende avranno senz’altro fornito ulteriore materiale a una band che di quel tema ha fatto costantemente uno dei propri capisaldi sia dal lato musicale che da quello strettamente attivista, la spinta verso l’azione è immutata e viaggia di pari passo con le numerose sottolineature nell’evidenziare il distacco sempre più netto dalla generazione attuale, alimentando la critica verso l’esterno con la stessa obiettività posta nel riflettere sul proprio contributo personale nei confronti del miglioramento della società. La differenza sostanziale rispetto al passato – anche nei confronti di quello più recente – è rappresentata dal vigore e dalla metodologia del messaggio che i Public Enemy continuano a trasmettere instancabilmente, un messaggio che queste nuove tredici tracce emanano in maniera sorprendentemente debole.
L’asprezza critica sembra infatti volgere verso una direzione così fine a se stessa da peccare persino di coerenza, perché l’intento è sì quello di mettere le cose in chiaro a tutti dall’alto della propria militanza nel gioco, ma la faccenda si fa nettamente complicata quando si rasenta il pericolo di fare la figura dei vecchi dinosauri indispettiti dalla presenza di nuove leve lontane anni luce dall’essere all’altezza del compito sia di sorreggere la sorte della buona, vecchia musica che i destini del mondo intero. Il primo passo per dare lezioni all’interno di quest’ambito c’è sempre sembrato quello di offrire un prodotto qualitativamente forte e stilisticamente ineccepibile, due componenti essenziali e palesemente assenti nella struttura di un album costituito da idee poco fresche.
Comprendiamo di vivere un periodo nel quale l’Hip-Hop sia sostanzialmente in guerra con se stesso e che ciò inneschi determinate dinamiche e risposte da parte di chi si appone all’andazzo generale, ciò non toglie che in battaglia si debba comunque andare attrezzati e questi Public Enemy sembrano affrontare la missione andando allo sbaraglio. Il pensiero è motivato dalla natura sconclusionata di pezzi come “Yesterday Man”, appesantita da una struttura fin troppo semplice e ripetitiva e dalla chiamata alle armi di personalità da decenni non più rilevanti (Daddy-O, oramai irriconoscibile), i quali non sembrano quanto di più adatto esista nel contrastare l’attuale pochezza artistica, ragionamento che colloca in un piano del tutto simile una “Smash The Crowd” che venticinque anni fa sognavamo a occhi aperti (Chuck D, Ice-T e Parrish Smith nello stesso pezzo!), ma che alla fine dei conti si limita a recitare un ruolo autoritario proponendo una stesura confusionaria, come dimostra una tessitura metrica che sembra più vicina alla casualità che non alla sostanza.
La tesi è avvalorata dal fatto che Chuck D metta in evidenza due dei suoi attuali limiti: l’andare talvolta per conto proprio nei confronti dei beat, senza riuscire a star dietro ai numerosi cambi che contraddistinguono la produzione anche all’interno dello stesso pezzo, e il ripetere in più circostanze gli stessi, identici accoppiamenti di barre, appesantendo l’esposizione del concetto anziché metterla in risalto; un difetto che non salta fuori certo oggi, però risulta più decisivo di prima. Per questo motivo idee di fondo molto valide come “SOC MED Digital Heroin” vengono penalizzate a causa della realizzazione (nel caso specifico la pochezza del beat e la non eccitante accoppiata Griff/Solè a sostegno del Rap), mentre pezzi musicalmente validi come “So Be It” si perdono nel testardo giocare con le parole del titolo in occasione dell’ennesimo ritornello inefficace.
Chuck D è notoriamente avverso a tutto ciò che sia di tendenza oppure oscuri il ragionamento e non possiamo che condividerne l’ideologia, “Toxic” – seppur anonima dal lato compositivo – è più che pertinente nel direzionare frecciate alla moralità del panorama musicale contemporaneo (<<rhymers and beatmakers/blessed by the internet/so I’mma start this war of art/before they rip this world apart>>) e l’accostamento Mutombo/Antetokounmpo vorrebbe preservare i valori della old school, ma non riesce a salvare il gruppo da un risentimento poco giustificato se davvero quelli sono i termini del paragone, effetto che si ripete in una “Sells Like Teens Hear It” validissima nei presupposti e tuttavia poco coerente nel concetto d’insieme, dato che l’idea trasmessa di sé è esattamente quella che non si vorrebbe propagare (<<I’m not the old head who be sideline booing/what my generation call mumble gum chewing>> – sicuri sia così?).
Il disco è senza dubbio godibile quando i Public Enemy ritrovano momentaneamente le vibrazioni giuste: l’energia data dall’invito ad agire della dinamica “sPEak”, il beat da puro bombardamento che accompagna la strofa a specchio di “Terrorwrist” e la possente ritmica del nuovo inno “Beat Them All” (una parte della quale viene misteriosamente replicata alla pari per farne un pezzo, un vero pasticcio…) sono senza ombra di dubbio piacevoli reminiscenze del sound caotico e minaccioso che ha indelebilmente marchiato il passato; ma, pur rispettando dal profondo del cuore l’operato del gruppo in questi tre decenni di ammirabile attività, “Nothing Is Quick In The Desert” risulta essere un’aggiunta del tutto superflua alla longeva discografia della leggendaria crew di Long Island.
Tracklist
Public Enemy – Nothing Is Quick In The Desert (No label 2017)
- Nothing Is Quick In The Desert
- sPEak!
- Yesterday Man [Feat. Daddy-O]
- Exit Your Mind
- Beat Them All
- Smash The Crowd [Feat. Ice-T and PMD]
- If You Can’t Join Em Beat Em
- So Be It [Feat. Jahi]
- SOC MED Digital Heroin [Feat. Solé]
- Terrorwrist
- Toxic
- Sells Like Teens Hear It
- Rest In Beats (Part 1 & 2)
Beatz
- Dj Pain 1: 1, 8
- C-Doc (The WarHammer): 2, 4, 5, 6, 7, 13
- Racer X and Dj Infinite: 3
- Dejuan Boyd: 9
- Mike Redman: 10
- Threepeeoh: 11
- East Duel West and Sammy Vegas: 12
Scratch
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